“Santocielo”: Ficarra e Picone, più illuminati che blasfemi

Il duo comico confeziona una commedia garbata e intelligente in cui l’idea dell’immacolata concezione al maschile è un’inversione di ruoli atta a promuovere la volontà di mettersi nei panni degli altri

“Santocielo”: Ficarra e Picone, più illuminati che blasfemi

Santocielo, più che il titolo della commedia natalizia di Ficarra e Picone, sembra l’esclamazione con cui liquidare, occhi al Cielo, l’inutile polemica nata attorno alla sua sinossi.

Il film sarebbe reo, secondo alcuni, di oltraggiare dogmi religiosi. Nulla di più lontano dal vero, trattandosi di una commedia che poggia sulla sospensione dell’incredulità per scopi diversi e meno ambiziosi di quelli con cui la usano da millenni mistici e profeti. La trama consta in una missione per conto di Dio in cui qualcosa non va secondo i piani e che finisce col coinvolgere un uomo più bigotto che dai giusti valori, uno che ha smarrito il senso benedetto dell'empatia.

Partiamo dall’inizio (esilarante). Durante un’assemblea angelica Dio (Giovanni Storti del trio Aldo Giovanni e Giacomo) è risoluto a punire l’umanità, sempre più scelerata, condannandola all’estinzione per mezzo di un nuovo e definitivo diluvio universale; ma c’è anche una seconda opzione, quella di far nascere sulla Terra un altro Messia. Ai voti vince quest’ultima, così è necessario inviare qualcuno che, come fece a suo tempo l’Arcangelo Gabriele, si faccia carico dell’annunciazione. Per fecondare la prescelta con l’imposizione della propria mano sul di lei ventre si offre volontario Aristide (Picone), un angelo adibito all'ufficio smistamento preghiere che vede nell’impresa la possibilità di una promozione, ossia il suo desiderato trasferimento nel coro dell'Altissimo. Per una serie di circostanze, a ritrovarsi fecondato dal divino sarà Nicola (Ficarra), un vicepreside in rotta con la moglie (Barbara Ronchi); un guaio cui è difficile rimediare ma che può trasformarsi in occasione di crescita per molti, in Alto come in basso.

Ficarra e Picone, qui interpreti e coautori della sceneggiatura, affidano stavolta la regia a Francesco Amato e mettono in scena con “Santocielo” un film più profondo di come appare, che sfrutta i cliché in modo garbato eppure pungente, regalando una qualche disamina di temi sociali della contemporaneità.

Si dà ad esempio una nuova visione di famiglia dall’assetto non prestabilito, in cui il collante sono l’affetto, la comprensione e la presenza, mentre i ruoli diventano secondari e mutano secondo necessità.

Il film promuove una piccola rivoluzione interiore ad opera del singolo e finalizzata ad uscire dalle proprie chiusure mentali ed emotive; smonta i pregiudizi, presenti nella narrazione su schermo sia tra gli angeli che tra gli uomini. Da un lato abbiamo un Paradiso simpaticamente un po’ cialtrone, dall’altro la visione impietosa di un mondo popolato da poveri diavoli conformisti.

“Santocielo” gioca sui dogmi della fede cattolica con misura, scherzandoci sopra e dandone un’immagine ironica e rivisitata perché non ci si fossilizzi sulla loro statica e secolare forma ma se ne riscopra semmai il sempiterno contenuto. Questo significa rispetto della religione nel suo senso più elevato e dispiace constatare che alcuni “custodi certificati” del cristianesimo abbiano gridato invece alla blasfemia, guardando con cieco integralismo il dito (la boutade carnevalesca al centro della commedia) piuttosto che la Luna (il multiforme Bene Spirituale promosso dal film).

La soave finta-innocenza con cui il duo comico discetta delle cose sante, era già presente in "Il primo Natale" ed è foriera di sorriso; l'atteggiamento, lungi dall’essere denigratorio, semplicemente è mai serio.

I doni, in termini di valori, di questo anomalo film di Natale però ci sono tutti, in primis l’afflato a liberare lo spettatore dall’annosa schiavitù del “cosa pensa la gente”. Del resto mostrarsi diversi da chi siamo o da come ci sentiamo alla lunga avvelena l’anima e la appesantisce, amplificando sofferenza e crisi esistenziale. Poi c’è la strizzata d’occhio all’attuale riscossa della coscienza femminile, nel ripetuto e insinuante “Lo sa come sono le donne" che qualche malcapitato si azzarda a pronunciare nel film e subito a ritrattare balbettando. Più che alla guerra tra i sessi, però, si pensi alla legge del contrappasso: un misogino, reo di aver mancato di sensibilità e ascolto nei confronti della compagna, si ritrova gravido, il primo uomo nella storia dell’umanità ad esserlo.

C’è poi il contenuto relativo al valore della preghiera, che è una speranza che fa compagnia prima che una richiesta ai piani Alti.

Quanto alla speciale simpatia, nel film, tra l’angelo e la suora (perfetta nel ruolo Maria Chiara Giannetta), c’è poco da scandalizzarsi: l’innamoramento tra i due non è anelito alla fisicità, bensì attrazione tra due luci, visto che la religiosa è consacrata al divino e l’angelo ne è diretta emanazione.

Insomma, tanto rumore per nulla. L’ironia è che siamo di fronte a un'opera che è un assist evangelico ma che alcuni prelati hanno trasformato in autogol, mostrandosi ossequiosi nei riguardi della formazione fossile anziché del messaggio vivo del culto religioso.

A livello strettamente cinematografico “Santocielo” presenta una parte centrale un po' strascicata, quasi tediosa e il minutaggio è eccessivo per una commedia.

In definitiva però, tra citazioni a film iconici, sorrisi caustici, riflessioni e buoni sentimenti, "Santocielo" è quel che potremmo definire un esempio di leggerezza di spessore. Scambiarlo per un attentato al cristianesimo non è certo da uomini di buona volontà.

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