Cinico, ambiguo ed egoista: il "Teseo" di Gide è un mito molto contemporaneo

Il figlio di Etra ed Egeo, anziano, riflette sulle grandi domande dell'esistenza

Cinico, ambiguo ed egoista: il "Teseo" di Gide è un mito molto contemporaneo

«Non è mai stato nel mio stile farmi fermare dagli scrupoli». La lucida ammissione del Teseo di André Gide, alla fine dell'omonima opera appena ripubblicata da Mattioli 1865, è forse la migliore descrizione di uno dei personaggi più ambigui tra quelli tramandati dal mito: il vincitore delle Amazzoni, l'eroe per eccellenza dell'Attica, infatti, è anche l'uomo che abbandona Arianna dopo aver ricevuto il suo indispensabile aiuto per sconfiggere il Minotauro, il figlio che dimentica di issare le vele bianche al posto di quelle nere, provocando così il suicidio del padre, Egeo, ed il padre che maledice il figlio Ippolito, causando la sua morte. Il Teseo di Gide parla in prima persona, come è molto in voga, almeno a partire dalla temibile Iliade di Baricco, tra i contemporanei scribacchini di mitologia: che non hanno, naturalmente, la grazia delicata del premio Nobel per la letteratura nel 1947.

Gide rilegge la vita di Teseo, che diventa un modo per riflettere sulla sua esistenza: racconta la voluttà panica e quasi insopportabile della natura che lo portava, da giovane, ad accarezzare «i frutti, la tenera scorza dei giovani alberi, i sassi levigati dalle acque dei fiumi», conducendolo ad uno «stato di eccitazione sensuale». Racconta la fatale dimenticanza di sostituire le vele che causa la morte di Egeo, aggiungendo che «non si può ricordare tutto»: un'uccisione del padre che avrebbe fatto impallidire Freud. Racconta il giardino del Minotauro, dove i suoi compagni, «inebetiti dall'ebbrezza», si accarezzano, si palpano e da cui non vogliono andarsene, nonostante lui offra loro la libertà: «libertà da che?», protestano, con una domanda che è già una risposta. Racconta l'incontro con Dedalo, che gli parla del figlio, Icaro, la vana immagine dell'inquietudine dell'uomo, che, dopo la morte, ha almeno la consolazione di poter «vivere risorgendo all'infinito nella riconoscenza degli altri». Racconta le sue donne: Pasifae che lo divora con gli occhi, la «bella ma noiosa Arianna», dal pudore «così facilmente accessibile» che non può credere di esserne lui stesso il pioniere, e di cui non riesce a sopportare la «sensibilità morbosa». Teseo, però, è attratto e turbato da Fedra, perde la ragione per lei, anche se - o forse proprio perché - è solo una bambina che gioca e si dondola sull'altalena: e arriva, con l'aiuto dell'amico Piritoo, a portarla via da Creta, facendola travestire da giovane uomo e fingendosi pederasta.

Nonostante l'eroe di Gide si definisca molto eterosessuale («non mi sento assolutamente attratto da quelli del mio sesso, per quanto giovani e affascinanti»), l'ambiguità è, naturalmente, molto evidente. Soprattutto pensando al Corydon; o al suo diario, in cui raccontava di un ragazzino che si era spogliato davanti a lui, sotto la luna, in riva al mare: «la sua carne grigio cenere è la gioia più aspra che abbia avuto». In ogni caso, Teseo fugge con Fedra - che si innamorerà di Ippolito, andando incontro al suo tragico destino - e incontra, alla fine, il vecchio Edipo ormai accecato, della cui «sovrumana saggezza» e del cui «mondo interiore che sfugge ai nostri sensi» diffida. L'eroe di Gide, invece, rinuncia consapevolmente ad ogni afflato mistico: è solo «figlio di questa terra».

Ma in fin dei conti, quello che Gide coglie davvero di Teseo è il suo desiderio, o forse, la sua necessità di libertà che, come spesso accade, sfiora l'egoismo, e avvicina molto gli eroi del mito greco ai non eroi contemporanei: quella libertà e quell'egoismo che gli facevano dire di non aver promesso nulla ad Arianna, perché «è a me stesso che devo consacrarmi».

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