Un anno fa, dopo quasi cinque mesi di combattimenti iniziati il 23 maggio 2017 e oltre mille morti e quasi 400mila sfollati, Marawi (isola di Mindanao, sud delle Filippine) è stata liberata completamente dall'assedio dei miliziani del Maute e Abu Sayyaf, due gruppi locali affiliati allo Stato Islamico. Ancora oggi però è una città fantasma, deserta, distrutta, non del tutto bonificata dalle trappole esplosive lasciate dai jihadisti e dagli ordigni inesplosi, inclusi quelli lanciati dall'aviazione filippina durante i tanti bombardamenti. Più di 27mila famiglie, che non possono tornare nella loro città, vivono ancora nei centri di evacuazione forniti dal governo e dalle associazioni umanitarie nella vicina Iligan, a circa 40 chilometri da Marawi. Il ritorno alla normalità non sembra essere vicino: le autorità stimano che la ricostruzione di infrastrutture e abitazioni non avverrà prima del 2020/2022.
La riconquista di Marawi, considerata dal presidente Rodrigo Duterte una vittoria schiacciante contro il terrorismo, non è stata però una vera sconfitta per gli islamisti. Anzi, potrebbe essere considerata una vittoria quantomeno simbolica. Primo, perché i jihadisti sono riusciti a tenere la città sotto assedio per quasi cinque mesi. Secondo, perché hanno fatto emergere le falle di intelligence e truppe governative, per loro stessa ammissione non preparate a operare in ambito urbano. «Siamo abituati alle insurrezioni, ma non a un dispiegamento di questa grandezza in aree abitate», mi aveva detto a Marawi il colonnello Christopher Tampus, uno degli ufficiali in comando nell'agosto 2017, nei giorni più infuocati del conflitto. Terzo, perché questi gruppi, con l'occupazione della città, hanno acquistato popolarità tra i più giovani, molti dei quali si sono arruolati nelle loro file nei mesi successivi. Infine c'è da considerare che i miliziani dell'Isis, fuggiti prima della ripresa della città, hanno saccheggiato banche e abitazioni, portando con loro un'enorme quantità di denaro, fondi usati per riorganizzarsi e mettere a segno nuove violenze nell'isola di Mindanao.
Nelle Filippine meridionali, infatti, continua a scorrere sangue. Nonostante la Bangsamoro Organic Law, una legge firmata a fine luglio dal presidente Duterte, che estende l'autonomia della regione a maggioranza musulmana nel sud, i jihadisti tornano a colpire e annunciano una nuova stagione del terrore. La firma della legge era attesa da tempo. Frutto di numerosi colloqui di pace iniziati nel 2014 tra Manila e il Moro Islamic Liberation Front (Milf), il più grande gruppo ribelle del Paese che ha combattuto per decenni contro il governo centrale, l'autonomia è sempre stata considerata la chiave per creare una pace duratura con i guerriglieri separatisti e per contrastare l'ascesa dell'estremismo islamista nell'area.
Grazie a questa legge, la regione di Bangsamoro che comprende varie isole della parte australe del Paese, inclusa quella più grande di Mindanao dovrebbe avere i suoi poteri esecutivi, legislativi e fiscali entro il 2022. Manila continuerà a controllare la difesa, la sicurezza, gli affari esteri e la politica monetaria. Grande come la Corea del Sud, questa è la regione più arretrata delle Filippine nonostante le numerose risorse e la posizione strategica nel Mar Cinese Meridionale.
Con questo accordo Duterte spera di fermare i gruppi radicali sempre più attivi nella regione anche grazie all'aiuto del Milf. Per ora però non sembra così: non solo la strada per la pacificazione rimane tutta in salita, ma si potrebbe aprire anche una nuova escalation di violenze portata avanti da questi jihadisti, contrari a un accordo con il governo, che hanno come unico obiettivo quello di issare la bandiera nera in tutta l'area.
Secondo l'intelligence filippina, i gruppi armati che hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico sono ventitré. I più organizzati sarebbero proprio Abu Sayyaf e il Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (Biff), quest'ultimo sempre più attivo, a metà luglio infatti ha tentato senza riuscirci di occupare il municipio di Datu Paglas, nella provincia di Maguindanao. La vera sanguinosa risposta è avvenuta però alle prime luci dell'alba di martedì 31 luglio, a meno di una settimana dalla firma, quando un'autobomba è esplosa in un posto di blocco militare nell'isola di Basilan. L'ordigno ha provocato la morte di undici persone, tra cui cinque uomini delle truppe governative e un bambino di soli dieci anni. L'attacco è avvenuto nei pressi di una base militare a Lamina, dove un terrorista suicida ha fatto esplodere il furgone che stava guidando. Nella serata dello stesso giorno è poi arrivata la rivendicazione da parte dell'Isis che ha pubblicato l'immagine del terrorista marocchino Abu Kathir al-Maghrebi, indicandolo come l'uomo che avrebbe compiuto la strage e che si sarebbe arruolato nei mesi precedenti con i miliziani di Abu Sayyaf. Altri combattimenti sono in corso, quasi quotidianamente, in varie parti della regione tra le truppe governative e i miliziani neri.
«Lo Stato Islamico ha scelto l'isola di Mindanao come terreno strategico per reclutare combattenti dopo aver perso le roccheforti in Medio Oriente». Ad avvertire il governo di Manila è stato recentemente anche Murad Ebrahim, il leader storico del Milf. La notizia non è certamente nuova, né priva di fondamento.
Da tempo, infatti, la propaganda dell'Isis punta a questa parte del mondo, zona fertile per il terrorismo sin dai tempi di Al Qaeda che qui ha trovato molti volontari per combattere in Afghanistan e che ora, invece, sognano di creare uno Stato Islamico a casa propria, con l'aiuto dei tanti terroristi stranieri. L'allerta intanto rimane alta in tutte le Filippine: la paura è che ci possa essere un attacco in stile Marawi proprio in questi giorni, in concomitanza con l'anniversario della liberazione della città.
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