Ma com’è triste Venezia Müller si difende: «Questo è il massimo»

da Venezia

«Presidente, posso lamentarmi?», scherza Paolo Mereghetti, rivolgendosi a Paolo Baratta. La sera prima in sala Perla, dove passava un estenuante film russo, non funzionava l’aria condizionata: in tanti si sono abbioccati. S’intende, non stanno qui i problemi della 65ª Mostra. Ma com’è triste Venezia: e mancano ancora cinque giorni alla fine. I film, alcuni indigeribili, arrancano. La giuria sbuffa. Le star, poche, fanno la classica toccata e fuga. Si vendono meno biglietti. I compratori italiani si dannano alla ricerca di qualche film potabile. La Bim pigliatutto non ha neanche un titolo in gara. Le Film Commission, per risparmiare, hanno affittato uno spazio comune. Latitano le colonne del cinema internazionale, Universal, Miramax, Warner, Fortissimo. Molti giornalisti americani e anglosassoni sono rimasti a casa. La terrazza dell’Excelsior, un tempo cuore mondano della Mostra, alle 11 di sera è desolatamente vuota. Trovi posti al ristorante senza prenotare. Idem per gli alberghi, anche i più esclusivi. Solo sul fronte dell’indotto legato ai ricevimenti si registra, rivela La Nuova Venezia, un calo del 40 per cento.
Vogliamo chiamarla crisi? I quotidiani dedicano largo spazio, le tv organizzano speciali, qualche prestigiosa testata straniera ha aggiustato il tiro, i film italiani delle rassegne parallele piacciono. Tuttavia, più che in passato, tira una strana aria. Il presidente Baratta e il direttore Müller un po’ se l’aspettavano. L’intestazione recita «Mostra d’arte cinematografica»: il che significa cercare nuovi talenti, pure rischiare nella selezione, senza affidarsi ai soliti noti.
Baratta, manager ruvido e franco, non nega. Incontrando i giornalisti all’ultimo piano dell’ex Casinò per il tradizionale bilancio di metà Mostra, scandisce: «Vero, non è un anno favorevole. Mica vivo sui rami cinguettando a primavera. Che ci fosse un calo degli anglosassoni e degli americani era facile prevederlo sin da giugno, scorrendo i dati delle prenotazioni alberghiere. Colpa del cambio disagevole del dollaro». Il presidente parla di «limature confermate dai dati statistici». In soldoni, le entrate relative ai biglietti e agli abbonamenti sono diminuite del 12 per cento (nel 2007 andarono venduti circa 60mila biglietti, 40 al Lido e 20 a Venezia). Però «la parte economica è stabile e tranquilla, gli sponsor principali hanno firmato per altri due anni», informa Baratta, evocando «fenomeni ciclici» in attesa che «il rapporto dollaro-euro si raddrizzi». Aggiunge con sincerità: «Si tratta di capire se la crisi è contingente o riguarda il cinema mondiale». Vai a saperlo. Intanto nessuno, qui al Lido, crede alla favola del nuovo Palazzo del cinema pronto per il 2011: sotto la prima pietra bisogna scavare per nove metri, si troverà l’acqua, in più mancano all’appello 40 milioni di euro.
Anche Müller, nel difendere legittimamente la selezione annunciando un finale tutto fuochi d’artificio, sembra un po’ ammaccato. Però contrattacca: «Voi giornalisti avete presentato la Mostra come una pallida imitazione del festival di Toronto. Eppure sono loro a riprendere 23 dei nostri film e solo 11 da Cannes. Ditemi: qual è il picco artistico che avremmo lasciato fuori dalla porta di casa? Il confronto con Toronto è vinto da Venezia. Se poi i film vi irritano o vi stufano, be’ è un altro discorso. Tutto è lecito, ma per noi restano i migliori sulla piazza». E cita l’etiope Teza di Haile Gerima, molto piaciuto ai critici. «Sì, ma la parola “film etiope” fa cagare i nostri direttori», commenta senza giri di parole Natalia Aspesi. Per lei sarebbe solo una questione di film: «L’anno scorso erano più belli». Müller, nel definire la Mostra «fratta e schizofrenica», non ci sta. Replica così: «Il grosso cinema hollywoodiano che si produce ora non ha bisogno di festival - di qualsiasi festival - per farsi pubblicità.

Del resto, la Mostra non può essere solo un trampolino di lancio per blockbuster pronti a uscire. Volevamo il nuovo film di David Fincher, ma esce il 23 dicembre. Troppo tardi. Non ce l’avrebbero dato neanche se ci fossimo travestiti tutti da Babbo Natale». In effetti.

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