Il momento più duro della mia vita mi è venuto addosso circa tre anni fa quando, da una forma atletica soddisfacente, sono passato, nel giro di quindici giorni, a una paralisi quasi totale. Soffrivo dolori terribili giorno e notte, avevo difficoltà a camminare e a muovermi, non riuscivo ad allungare un braccio per prendere un bicchiere, a lavarmi, a entrare nella vasca da bagno... La diagnosi, abbastanza generica, fu di polinevrite (75 di Ves), una delle tante malattie autoimmuni, come l'artrite reumatoide, il lupus sistemico ecc. In pratica, una sorta di eccesso del sistema di autodifesa, un fuoco amico che aggredisce il soggetto del sistema immunitario.
Tuttavia, non volevo arrendermi ai farmaci. Ero pronto ad arrampicarmi sui vetri, volevo trovare una via d'uscita, sperando di recuperare la mobilità come un paese che, dopo il passaggio dello tsunami, comincia la ricostruzione. All'esterno non trovavo appigli che favorissero il mio ottimismo, anche perché non è stato ancora individuato un farmaco che risolva questa patologia. Al massimo, la farmacopea può ridurre il dolore e creare la possibilità di una vita appena sostenibile. Non mi restava che la fede nelle risorse della vita e della natura, l'accettazione di questa specie di via crucis, il fare appello alla mia capacità di soffrire e di flettermi al destino.
Iniziava una nuova battaglia. Mi rimboccai le maniche, digiunai, intrapresi una dieta e cominciai a fare degli esercizi per rinforzare le articolazioni che mi provocavano dei dolori fortissimi. I miglioramenti erano impercettibili, guadagnavo pochi millimetri a settimana, con una fatica enorme. Poi sono partito per le Maldive, nella speranza che l'esposizione al sole e i bagni mi portassero qualche beneficio. Ma i benefici non furono quelli sperati. Tuttavia, lì compresi che il movimento era utile, che non dovevo cedere alla inattività e dovevo andare controcorrente. Ricordo che in quell'anno terribile ho assunto, in tutto, due aspirine e un anti-infiammatorio per bocca.
Un giorno arrivò la lettera di una signora malata come me che, dopo quattro anni di cura con il cortisone, ora stava guarendo perché effettuava delle sedute fisioterapiche con una macchina che trasmetteva una corrente a bassissima intensità (1,29 volt). Io ero scettico. Ma mia moglie forzò la situazione invitando a mia insaputa questo fisioterapista che si presentò a casa trascinando la famosa macchina. «Signor Mogol si spogli, dove ha il dolore più forte». «In questo momento alle spalle». Alla fine della seduta riuscivo ad alzare le braccia al di sopra delle spalle di dieci o quindici centimetri. Cominciai a intravedere un filo di luce e iniziai a fidarmi di questa terapia che, combinata con altre tecniche del calore sulle quali mi ero documentato, pian piano riduceva il dolore e restituiva mobilità. Cominciai a correre, ma anziché nel modo normale, facendo dei saltelli doppi su ogni piede. Constatato che riuscivo a spostarmi in avanti in questo modo, quel giorno piansi di gioia. È stata una lenta, tenace e sofferta risalita, fatta di piccoli miglioramenti. Poco alla volta ho ripreso a muovermi quasi come prima, al punto che sono tornato a giocare con la Nazionale cantanti, di cui sono capitano. Mi resta da velocizzare il recupero della elasticità muscolare dopo le partite.
Adesso ciò che conta di più è che la mia esperienza sia utile a tutti coloro che soffrono di queste patologie. Sono sessanta milioni nel mondo e sono in continuo aumento. Per questo è nato un comitato scientifico che segue costantemente otto pazienti, oltre a me e a quella signora che mi segnalò per prima i benefici della terapia naturale. Al comitato scientifico, presieduto da Luc Montagnier, fresco premio Nobel per la medicina, aderiscono tra gli altri studiosi come Girolamo Sirchia, il professor Ignazio Marino, Walter Santilli, docente alla Sapienza di Roma. Questa sperimentazione ha portato alla definizione di un protocollo relativo all'artrite reumatoide per 120 pazienti che sarà esaminato e approvato in gennaio dal comitato.
Mogol
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