Giacomo Poretti, attore, sceneggiatore, «trentatré per cento» del celebre trio con Aldo e Giovanni, si trova al «suo» Teatro Oscar, a Milano, «per dei lavori di ristrutturazione».
Superbonus anche voi come mezza Italia?
«C'è poco tempo. Il 12 settembre c'è già la prima puntata del PoretCast, che è alla sua seconda stagione. Protagonista Javier Zanetti».
A casa mia siamo tutti del Milan.
«Eh no, per entrare ci vuole la tessera del tifoso».
Che cosa fa al Teatro Oscar?
«Lo abbiamo fondato io, Luca Doninelli e Gabriele Allevi. Siamo al secondo anno di programmazione: abbiamo cominciato nell'ottobre del 2019, quindi ci siamo dovuti fermare quasi subito a causa del Covid...».
Ora però ripartite. Ed è anche appena uscito il suo libro, Un allegro sconcerto, pubblicato dalla Nave di Teseo, che presenterà proprio al Teatro Oscar il 25 settembre con Doninelli. Che cos'è questo «allegro concerto»?
«Quello che mi auguro di far sentire ai lettori. Nei vari racconti del libro, in modo un po' fantascientifico e provocatorio, si descrive la mancanza di questa meraviglia verso la vita, di questo sconcerto. I personaggi la vivono con sofferenza, perché sono convinti che esista qualcosa di più della normale attitudine pratica che attraversa ormai l'esistenza. Che paroloni, eh».
Il sottotitolo del primo racconto è «malinconicamente leggero». C'è un legame fra malinconia e comicità?
«Credo che la maggior parte della comicità sia comunque malinconica: spesso ha a che fare con i difetti e le stramberie della realtà e delle persone e, siccome è un gioco, questa malinconia se la porta dentro».
Scrive: «La prima volta che ho fatto ridere qualcuno non l'ho fatto apposta».
«Appunto. La comicità involontaria di questo bambino che deve fare una cosa serissima, declamare una poesia davanti a degli adulti e, per la paura, si fa la pipì addosso, se ne vergogna, e fa ridere tutti... È la linea sottile fra tragedia e comicità».
Alla fine del libro c'è Giacomo Poretti che intervista Tafazzi, l'«omino nero». Un po' di autoironia?
«Sì... In oltre trent'anni mi è stato chiesto spesso come vengano in mente le idee. Da fuori vediamo solo Tafazzi che si dà le bottigliate là, ma ci sono anche un prima e un dopo».
Sembra prevalere la casualità, Tafazzi le rinfaccia persino: se non ti avessero dato del «tappetto» da adolescente, spingendoti a fare pugilato...
«Ci ho tenuto a smontare l'alterigia o la vanità dell'artista, il colpo di genio: stai calmo... Le invenzioni appartengono anche ad altri. Lo stesso metodo con cui è nato Tafazzi funziona per tutto: causalità, intelligenza, tante cose insieme».
Si lavora meglio da soli, in coppia o in tre?
«Ogni ambito ha la sua particolarità. Col trio è stato fantastico, molto divertente e anche faticoso. Comunque il mio ambito preferito, sia con loro, sia con Daniela Cristofori, mia moglie, è la scrittura: negli sketch, a teatro, nei libri».
Che cosa cerca?
«Si cerca la stessa cosa in modi diversi. Con Giovanni e Aldo, da 30 anni, siamo in questa dimensione di gioco: la nostra comicità è questo, è gioco, ed è misteriosa, perché apparentemente non serve, ma in realtà è ricercata e gradita. Non è facile entrare in questa dimensione, e non sai come accada».
Altre dimensioni?
«L'artista è fortunato perché può occuparsi degli argomenti che ama, del senso delle cose... Con mia moglie Daniela Cristofori ho fatto Funeral Home, una commedia poetica sulla morte e gli anziani, molto divertente. Ora stiamo scrivendo uno spettacolo sul lavoro. E mi piacerebbe molto farne uno sulla follia».
Scrive che la comicità porta «in un'altra realtà». Quale?
«Quella che si vive anche a teatro, che lo spettatore sa benissimo non essere la vita vera e che a un certo punto deve per forza interrompersi, altrimenti regnerebbe l'anarchia».
La comicità può parlare di tutto?
«È la fortuna del comico e del suo linguaggio: pensiamo a Woody Allen e alla morte... Poi dipende dal garbo e dalla gentilezza che ci metti, perché la comicità può essere anche violentissima».
Non la sua.
«Il mio e il nostro stile è più improntato sul gioco, ma non per questo è meno pungente nel rivelare i difetti della realtà e portare a galla temi scomodi».
Come in certi racconti?
«C'è il mondo normale, della praticità, e c'è tutto il mistero dietro. E la prima visione è rigida: non ammette altro».
Parla di Bibbia e cibo.
«Mi sono divertito a scrivere quel capitolo, ma il punto è come tutto stia diventando sterile. La Bibbia: perché occuparcene? Non è smart... Ma, che uno creda o no, oggi ci mancano le domande».
Nell'«intervista» con Tafazzi dice: «Volevo solo far ridere». Perché?
«Non c'è una risposta esaustiva. Potrei dire che, di fronte al timore che senti nei confronti dell'altro da te, se riesci a strappargli un sorriso, quello che poteva sembrare una minaccia sparisce. Forse, ripeto forse, tutti i comici fanno anche così».
Una cosa che fa ridere tutti?
«Più che una battuta, un atteggiamento. Quella libertà di giocare, un po' sfrontata. Le faccio un esempio: quando inizia uno spettacolo, c'è sempre qualcuno in ritardo. Se si recita Shakespeare, tutti fanno finta di niente; il comico invece non vede l'ora: ti sputtano... Scusi, lo spettacolo non era alle 21?. È come dire una verità che tutti hanno lì, sulla punta della lingua, ma non riescono a pronunciare».
Chi la fa ridere?
«Su tutti Stanlio e Ollio, Buster Keaton, Charlie Chaplin, Totò, Aldo Fabrizi. Woody Allen mi diverte moltissimo. E anche Antonio Albanese».
Con Aldo e Giovanni avete vinto il premio per il film che ha portato più pubblico in sala. Un miracolo, post Covid. Come avete fatto?
«E che ne so... Non posso dare tutte le risposte eh».
Di che cosa ha paura?
«Ho le mie preoccupazioni, la perdita delle persone care, le malattie. Insomma di quello che fa paura a tutti. Del derby».
Del palco no?
«No. Beh, all'inizio sempre. Anche dopo trent'anni. Ma dopo passa...».
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