Concerti

"Allora stasera andiamo al cinema?". "Ci sei anche tu al concerto?". Nel 2020 questi inviti sono spariti, estinti, zittiti dalla pandemia

Concerti

«Allora stasera andiamo al cinema?». «Ci sei anche tu al concerto?». Nel 2020 questi inviti sono spariti, estinti, zittiti dalla pandemia. Sono improvvisamente finiti fuori catalogo, ormai inutilizzabili per divieto virale, cancellati quasi all'improvviso dalla nostra vita. Quello che si chiude è stato l'anno delle abitudini finite all'improvviso, delle parole date da sempre per scontate ma improvvisamente diventate inutili. Prevendita? E per che cosa? Tutti i concerti sono stati rinviati al 2021 se va bene. Oppure annullati, che è peggio. Il film? Solo dal divano di casa. È esploso lo streaming e bye bye poltroncina del cinema, attesa, coda, intervallo tra il primo e il secondo tempo.

La prima proiezione cinematografica è stata 125 anni fa esatti, il 28 dicembre del 1895 al Salon Indien di Parigi e da allora è sempre stato possibile sedersi in un cinema per godersi un film, anche quando c'era la guerra, anche quando non c'erano soldi per mettere insieme il pranzo con la cena. Nel 2020 no. Oggi no. Domani chissà, forse, boh.

È stato l'anno delle «parole che non ti ho detto», come il titolo del film di Luis Mandoki con Paul Newman, Kevin Costner e Robin Wright. Anzi delle parole che non ho potuto dire perché il coprifuoco le ha drasticamente coperte, impedite, messe tra parentesi. Dopo il Festival di Sanremo, ultimo rito collettivo seguito da tutti senza problemi, è cambiato il nostro vocabolario sociale. Anzi, è finita la socialità, specialmente quella degli spettacoli, che era una delle ultime barriere alla gelida deriva solitaria dei social. I veri social erano i concerti, con la condivisione di passioni e sudore del pubblico. Oppure gli applausi dei teatri, sempre più rari perché minacciati dalla crisi, azzoppati dai tagli di bilancio o di cartellone. I velluti delle poltroncine nel 2020 non si sono consumati, anzi, si sono impolverati. Al buio. Nel silenzio. Quest'anno gli attori sono stati tra parentesi, in pausa, confinati nei camerini del lockdown e delle zone ora rosse, ora gialle, ora arancioni ma soprattutto sempre nere pece, nerissime come l'inferno delle luci spente, del sipario immobile, delle stagioni bloccate e rinviate a chissà quando. Il calendario degli appuntamenti rituali si è zittito e, forse, molti ne hanno capito l'importanza. Per decenni la Prima della Scala è stata presa di mira dalle contestazioni, hanno tirato uova agli spettatori, organizzato presidi davanti all'entrata, fatto battute e pernacchie a non finire. Ma questa volta, nella sera del 7 dicembre, a tutti anche ai contestatori ha fatto paura sapere che l'orchestra non era nella buca, che il presidente della Repubblica non ci rappresentava dal palco reale, che i loggionisti non avrebbero potuto applaudire, fischiare, buuare il tenore. Tra le parole che non si sono dette si è accomodata soprattutto quella che abbiamo pronunciato di più sui social, ossia per finta: la condivisione. Abbiamo condiviso tutto a distanza, sempre con un clic e mai con la presenza.

Perciò ora, dopo dieci mesi di astinenza, c'è bisogno di un «refresh» e di un ritorno alla normalità, ai ritrovi in nome dell'arte, del bello o semplicemente dell'intrattenimento divertente. Prima tanti forse la disprezzavano. Oggi tutti la rimpiangono.

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