Condannati a restituire il risarcimento

Beffati: adesso solo in parte. Un filone giudiziario, l’unico, si è concluso. Comincia nel 1988 al Tribunale civile di Milano, è una causa pilota intentata da 21 famiglie: chiedono il risarcimento del danno esistenziale. Il giudice accoglie le richieste dei «diossinati», la Givaudan non accetta la sentenza e ricorre. Nel 1990 i giudici di secondo grado confermano la decisione del Tribunale: liquidano due milioni di lire per ogni persona. Il colosso chimico paga, ma non si arrende. Si rivolge alla Cassazione che nel 1997 ritiene che «in mancanza del danno fisico non deve essere risarcito neppure quello biologico» e rimanda tutto a Milano per riesaminare il caso e riscrivere la sentenza, che di fatto, accoglie la tesi difensiva dell’Icmesa, ormai in liquidazione.
Nel 2001, la Giustizia stabilisce che chi ha ricevuto il denaro lo deve restituire. Gerardo Broggini, legale della multinazionale chimica, dispone il «precetto» e lo fa recapitare a una sola persona: un’insegnante di 38 anni. Lo consente la prassi: passa la tesi della solidarietà tra le parti in causa. Il conto è salato: 53mila euro, dei quali 18mila per interessi. Nel febbraio del 2001 la Cassazione fissa un principio: in caso di disastro ambientale anche la paura in sé, l’angoscia e il senso d’incertezza per il futuro, costituiscono un valido motivo per ottenere il risarcimento dei danni morali. Il pronunciamento arriva tardi, interviene la prescrizione. Le 21 famiglie «beffate» si affidano all’avvocato Daniela Arlati di Desio.

«Pensavamo di presentare un’opposizione al precetto proprio per evitare di rimborsare almeno gli interessi», spiega il legale. Che inizia una trattativa con Broggini e alla fine la spunta. «Abbiamo dato alla Givaudan solo la somma che aveva consegnato alle vittime della diossina. Gli interessi, quelli no».

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