Un taglio è doloroso, sempre. Però ci possono essere quei tagli chirurgici che, se eseguiti con sapienza, rimettono in sesto il malato. Il taglio a cui mi riferisco è quello alla cultura, e il malato è quel complesso mondo di musei, di esposizioni d’arte, di biblioteche, di attività museali e teatrali. Il taglio della Finanziaria a queste realtà non è trascurabile, e quindi sono comprensibili (sono umane) la preoccupazione e le proteste.
Il fatto paradossale è che questi provvedimenti danneggeranno soprattutto le istituzioni di eccellenza, che operano ai limiti delle proprie disponibilità finanziarie, e non quelle di modesto valore culturale che possono tirare avanti comunque, perché le differenze tra realtà modeste sono sempre irrilevanti e poco percepibili. Dunque, questi tagli possono diventare un’utile operazione chirurgica per eliminare interventi pubblici che cadono a pioggia su enti culturali di scarsa qualità e di alto valore clientelare.
Certo, ci vuole un chirurgo coraggioso e competente che deve essere guidato da alcuni principi.
Intanto, è fuor di dubbio che il sostegno pubblico alle istituzioni culturali significative è fondamentale per lo sviluppo della civiltà stessa del Paese. Ma insistere su questo principio è soltanto noiosa retorica che trovo diffusa a piene mani senza nessun imbarazzo. Piuttosto, il governo deve sciogliere il nodo dell’intervento privato a favore della cultura, innanzitutto defiscalizzando i finanziamenti. Se, per esempio, come potrebbe accadere a Milano, un grande gruppo industriale o immobiliare decidesse di investire per dare alla città e al Paese un importante museo, il suo finanziamento andrebbe defiscalizzato totalmente.
In secondo luogo, non si dimentichi che, come la ricerca scientifica, anche le molteplici forme con cui si esprime l’iniziativa culturale costituiscono una parte essenziale del motore di sviluppo della nostra comunità. Il ministro Tremonti ha in animo di destinare l’8 per mille delle tasse sui nostri redditi alla ricerca scientifica. Ottima idea, che dovrebbe essere estesa anche alla cultura: il cittadino scelga e si renda partecipe.
Ma la questione non si ferma sistemando le cose nel mondo pubblico e in quello privato. L’operazione chirurgica deve prendere in considerazione anche ciò che succede all’interno delle istituzioni culturali. Il principio da seguire, credo, si dovrebbe basare sue due concetti: autonomia e responsabilità.
Più si concentrano e si selezionano i soldi alle istituzioni culturali e più queste devono spiegare alla comunità finalità e obiettivi delle loro iniziative culturali. Insomma, è fuor di dubbio che ci debba essere l’assoluta autonomia nella scelta della qualità artistica da parte di chi è chiamato a gestire un teatro, un ente lirico, un museo. Tuttavia, questi gestori devono anche avere una forte responsabilità civile per dare sempre ragione delle finalità delle loro iniziative, per dimostrare che stanno facendo cultura e non curando l’immagine attraverso uno spettacolo che di culturale ha soltanto l’ipocrita pretesa.
In questo senso è assolutamente sbagliato pensare di poter chiudere la gestione di un ente culturale dentro il proprio consiglio di amministrazione. E la stessa indipendenza gestionale non può essere soltanto di tipo giuridico-amministrativo. C’è anche un principio di responsabilità, che direttori e sovrintendenti devono rispettare con rigore, rispondendo dei propri atti e spiegando la razionalità delle loro scelte (la politica culturale) non solo ai consigli d’amministrazione ma anche alla comunità che sborsa i quattrini per una determinata istituzione culturale. Per esempio, l’assessorato alla Cultura del Comune di Milano versa un contributo ordinario annuo alla Fondazione Teatro alla Scala di 6 milioni e mezzo di euro.
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