Il '68 Pier Paolo Pasolini lo passa in Africa, insieme a Eschilo. «La società tribale africana assomiglia alla civiltà greca», dice, eccitato. Delfi detta auspici e sperpera enigmi nel cuore di tenebra. Terrorizzato dall'effetto peplum, dal carnevale hollywoodiano e dal patetico archeologico, Pasolini gira Appunti per un'Orestiade africana, progetto di un film mai realizzato, irrealizzabile. Ai suoi occhi, il sangue della tragedia greca s'irradia lì, ora, nell'Africa nera, «Oreste sarebbe un giovane negro, mettiamo Cassius Clay (pensavo a lui come protagonista)». A quell'epoca, Pasolini è folgorato dalla Grecia arcaica, esagono d'oro che lo trafigge: ha girato Edipo re e Medea, ha scritto Pilade.
L'aurora di questa infatuazione accade dieci anni prima. Nel 1959 Vittorio Gassman commissiona a Pasolini una traduzione dell'Orestea di Eschilo per le rappresentazioni classiche a Siracusa. Il poeta - già autore di Ragazzi di vita, Una vita violenta, Le ceneri di Gramsci - afferra Eschilo per il collo, con impeto selvaggio, «a divorarlo come una belva, in pace», scrive. La traduzione è un affronto, come chi strappi porte e finestre da una villa padronale: PPP non si approccia ai greci con l'orfica e compassata passione di Cesare Pavese. Decapitando idoli e dèi, arretrando la teologia a geometria dell'informe, Pasolini legge la tragedia come un fatto civico, arrende il teatro a fatto sociale: «Il significato delle tragedie di Oreste è solo, esclusivamente, politico». Intanto, modifica il titolo. Orestea diventa L'Orestiade, l'epica di Oreste, stretto tra onore e compassione, vendetta, omertà, turbamento. La grande tragedia del re sgozzato dalla consorte, della profetessa inascoltata, della legge del sangue, è tradotta come mito di passaggio dal sacrificio al parlamento, dall'altare al consesso elettorale. «La trama delle tre tragedie di Eschilo è questa: in una società primitiva dominano dei sentimenti che sono primordiali, istintivi, oscuri (le Erinni)... Ma contro tali sentimenti arcaici si erge la ragione... e li vince, creando per la società altre istituzioni, moderne: l'assemblea, il suffragio». Il testo scenico - pubblicato da Einaudi nel 1960, poi nel 1985 nella collana «Scrittori tradotti da scrittori», infine ora, da Garzanti - è di lacerante bellezza, scabra, scandalosa. Zeus è sostituito da Dio, l'Olimpo pare una cattedrale vaticana, i vaticini - «Il male chiama altro male:/ non si può giudicare: chi/ vuol prendere è preso,/ chi ha ucciso è ucciso: nel trono/ di Dio sta scritto: Chi ha peccato paga» - sembrano Salmi, Atene e Gerusalemme si fondono in un proclama che vale a incendiare Roma, «Oh, Dio! Tu parli, e compi la nostra rovina./ No, non si può lottare contro di te». Pasolini, «con la brutalità dell'istinto», ignora il testo originario, traduce sovrapponendo la versione francese, quella inglese, quella italiana di Mario Untersteiner.
Il greco non gli serve: non deve ricostruire il tempio con colonne di polistirolo né sedurre Madonna Filologia, ma estrarre il cuore profano di Eschilo.
Infine, conta la chiara norma dell'equilibrio - «è al sentimento della/ misura che Dio dà forza» - e l'etica democratica - «Ora estraggono i suffragi dalle urne/ coloro dei giudici che hanno questo incarico», esclama Atena, divina suffragetta. «Dio/ si è pacificato con la Morte»: così si chiude la tragedia. Cioè: Dio, al cospetto del genio politico, è finalmente inutile.
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