Così Augusto «il freddo» si impossessò di Roma

Ottaviano Augusto impugnò per primo lo scettro dell’impero romano, da lui costruito sulle ceneri fumanti della repubblica. Fu un pezzo da novanta della storia. Ma il suo personaggio non era ad alto tasso romanzesco. Non aveva il magnetismo di Alessandro il Grande, che trascinò l’armata ai confini del mondo, fermandosi solo quando i suoi occhi - uno nero, l’altro azzurro - inquadrarono la desolazione dell’oceano Indiano. Non poteva contare sul carisma di Giulio Cesare, che alternava la clemenza al pugno di ferro, e scendeva in battaglia con uno spettacolare mantello rosso: ufficialmente per fare da punto di riferimento ai suoi, ma secondo altri per calamitare i colpi nemici, e sfidare la morte. Augusto non aveva la tetra megalomania di Napoleone, che non conosceva vie di mezzo: o gli altari o la polvere. Il pallido Ottaviano era un manipolatore della politica. Come molti suoi pari, aveva talenti duri e opachi, un’infinita di scheletri negli armadi, un’abilità grandiosa nel tenere il piede in molte scarpe e, come scrive Tacito, il suo critico più tagliente, l’arte di spargere sui sudditi il miele ipnotico e melenso di una pace artificiosa. Sceglierlo come protagonista di una narrativa è un azzardo. Ci vogliono idee chiare e uno scaltro mestiere. Tutta farina che sta nel sacco di Luca Canali, latinista e divulgatore instancabile. Il suo Augusto (Bompiani, pagg. 130, 16 euro) è una scommessa vinta. Il suo progetto è limpido: tracciare il quadro stringato, ma completo, di un’epoca cruciale, che cambiò i connotati al mondo, il trapasso dalla vecchia Roma dei notabili terrieri al nuovo assetto degli affaristi, dei burocrati e degli avventurieri, l’impero, che mutando pelle e arricchendosi di qualche attributo, come «sacro», restò in piedi fino alla soglia dell’età contemporanea. Canali lavora sulle fonti documentarie. Ma non lo dà a vedere. Inscena il dramma da romanziere, fa interagire e dialogare i personaggi come fossero lì, davanti a noi. I dettagli d’ambiente, precisi come fotografie, costruiscono l’atmosfera.
Tutto comincia con una lettera e con un segreto. Spunti narrativi impeccabili. La lettera è un messaggio postumo di Cesare al prediletto Ottaviano, quel ragazzo che il dittatore sperava gli succedesse ai vertici di Roma. Il postino è Sceva, asciutto e coriaceo body guard di Cesare, che prima di sparire nell’ombra la consegna a Ottaviano, ammonendolo che sulla pergamena c’è il testamento del grande e le sue istruzioni per il potere. Chiunque si precipiterebbe a scoprire l’arcano. Ma non il futuro Augusto. È un caratteriale, un animale a sangue freddo. Di Cesare accetta l’eredità materiale, i milioni che gli permettono di assoldare le legioni e comprare consenso. Il lascito spirituale e politico può attendere. Ottaviano ammette un solo artefice della sua fortuna: se stesso. Ma un segreto aleggia e lo tormenta. Sceva e le sue teste di cuoio non perdevano mai d’occhio Cesare. Erano lì anche alle Idi di Marzo, quando i pugnali dei congiurati abbatterono il despota, il vecchio avversario. Sceva vide lo scempio. Si troncò a morsi la mano destra, disperato, ma non intervenne. Avrebbe potuto salvare il suo padrone. Perché non lo fece? La risposta è in quella pergamena che scotta.
Il dittatore sapeva del complotto. Gli si offerse inerme. Aveva vietato alla scorta di intervenire. Il suo sacrificio aveva un senso: coronare la sua rivoluzione, trasformare Roma dal caos delle faide a caput mundi. Ottaviano, secondo lui, aveva i numeri per farlo. Razionale, colto, spregiudicato. La morte di Cesare l’avrebbe lanciato nell’orbita del potere. Il ritratto di Augusto sboccia sulle pagine.

«Un giovane nato vecchio» lo definisce Canali: ammalato di sesso, di doppiezza, di egoismo. Con questo racconto Ottaviano non è più solo l’icona statuaria e polverosa dei libri di testo. Conquista i galloni da personaggio: è da romanzo.

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