"Così ho aiutato Marcell Jacobs a essere il più veloce del mondo"

I consigli della mental coach che segue atleti olimpionici e calciatori come Zappacosta e Perin (e altri di cui non si può fare il nome...)

"Così ho aiutato Marcell Jacobs a essere il più veloce del mondo"

Leggere il suo libro è come stare seduti sul suo divano, in un percorso di coaching come fa con chiunque arrivi in studio, seguendo quello che definisce un «non-metodo» capace però di far diventare «possibile l'impossibile» come scrive nella prefazione uno dei suoi più celebri successi: Marcell Jacobs, campione olimpico dei 100 metri. Anche grazie a lei. Lei è Nicoletta Romanazzi, mental coach, ed ha appena scritto il libro «Entra in gioco con la testa» dove svela tutti i suoi trucchi. E che ci sia riuscita è un dato di fatto.

Per lei c'è un prima e dopo Olimpiadi, con un boom veloce come i record raggiunti da Jacobs e come i chili persi, 5 per la l'esattezza, uno per ogni atleta che aveva in gioco alle Olimpiadi. I nomi sono tanti, dalle medaglie Luigi Busà e Viviana Bottaro, calciatori come Matìas Vecino e Mattia Perin, il fantino Andrea Mari e tutti quelli di cui non si può dire il nome.

Perché?

«C'è purtroppo ancora l'idea che se uno va dal mental coach è perché ha un problema o è debole e quindi non è in grado di risolvere le cose da solo. Invece è proprio il contrario. Chi viene da me è coraggioso, ha deciso di guardarsi dentro, mettersi in gioco. E poi si affidano al mental coach anche ragazzi che già ottengono ottimi risultati e che vogliono migliorare le loro performance. Per fortuna ora si comincia a capire quanto il lavoro mentale può essere indispensabile per un atleta. Si lavora sul corpo, sulla tecnica e non sulla mente che può bloccare tutto in un nanosecondo? Puoi essere la persona più talentuosa, puoi avere un potenziale pazzesco ma se la testa va in tilt non porti a casa il risultato».

Che è un po' la storia di Marcell Jacobs. Com'è iniziata?

«Mi ha contattato il suo procuratore, l'anno prima delle Olimpiadi. Mi ha detto che seguiva questo ragazzo con un grandissimo potenziale, ma che non riusciva a esprimere in gara, perché andava in tilt anche fisicamente. Gli si indurivano le gambe, si irrigidiva e non riusciva a esprimere quello che vedevano potesse fare negli allenamenti. Lui è venuto qui con il suo allenatore Paolo Camossi, mi hanno un po' raccontato quello che succedeva, ho capito che se si scioglieva, avrebbe potuto tirare fuori grandi cose. Abbiamo iniziato».

E cosa è successo?

«Aveva una gara proprio pochi giorni dopo il nostro incontro. Mi ha detto guardami. Mi ricordo che mi è arrivata una sensazione netta, ho visto un grande elastico dietro la sua schiena, come se fosse trattenuto. Lì ho pensato... mamma mia, se si taglia l'elastico vola. E così è stato».

In cosa è essenziale il lavoro mentale?

«Intanto nessuno ci spiega mai come funziona la nostra mente, come funzionano le emozioni, perché andiamo in tilt prima di una gara o di una performance, che cosa crea uno stato d'animo. Abbiamo idee confuse. Cosi come spesso abbiamo la tendenza a dare la responsabilità all'esterno dei nostri risultati o della nostra vita. E quando facciamo questo, perdiamo completamente il nostro potere personale, siamo sotto scacco. Con l'inevitabile conseguenza che on possiamo più cambiare nulla. Dobbiamo solo sperare di avere la fortuna che le cose vadano meglio e non è detto che sia così... quindi la prima cosa che faccio con le persone, è aiutarle a riprendere in mano la responsabilità della propria vita».

Come?

«Intanto partendo dal fatto che siamo noi a scegliere il significato da dare alle cose che ci accadono. Anche le peggiori. Quando mi chiedono che lavoro faccio, dico la corniciaia, cambio la cornice delle cose. Uso la metafora di immaginare un tavolo con al centro un bel vaso di fiori e intorno al tavolo delle persone che lo disegnano. I disegni saranno tutti diversi, perché le angolature sono differenti. Ed è un po' quello che bisogna imparare a fare: osservare gli eventi della nostra vita dandogli altri significati rispetto a quelli che siamo portati a dare, magari negativi che ci creano uno stato d'animo che non dà accesso alle soluzioni».

Nello sport il mental coach è una figura ancora di nicchia.

«In Italia siamo un po' in ritardo. In America e nel nord Europa è difficile che un atleta non ce l'abbia. Comunque è una figura che comincia a svilupparsi anche in Italia».

Per esempio?

«Ci sono diversi atleti, come Matteo Berrettini, il tennista, e anche qualche squadra di calcio».

Non tutte le squadre di Serie A hanno un mental coach?

«No, io seguo diversi calciatori e alcuni di loro sono anche nella Nazionale italiana, e sono stati spesso in difficoltà a raccontare di avere un mental coach. Temono che il mister o la società possano pensare che abbiano dei problemi e quindi di essere messi da parte perché considerati deboli. Eppure nello sport agonistico non si può non lavorare sulla mente. Prenda l'Italia di Mancini per esempio...».

Ecco, prendiamola, quella che non si è qualificata ai Mondiali...

«Lì a un certo punto si sono bloccati. Era tutto un fatto mentale. Gli atleti quelli sono. Se hanno ottenuto risultati non è che improvvisamente hanno disimparato a giocare a calcio. Succede qualcosa nella testa che non permette di esprimere il proprio potenziale».

Dalla Nazionale italiana non è che per caso le hanno fatto una telefonata?

«No...» (ride).

È tifosa?

«Tantissimo, prima c'era solo la Roma. Ora è più difficile perché magari ho atleti in squadre che devono sfidarsi ed è una tragedia. Mi è successo diverse volte di avere due dei miei giocatori che giocano uno contro l'altro, come per esempio Mattia Perin, secondo portiere della Juventus e Davide Zappacosta terzino destro dell'Atalanta... Tifo per uno e per l'altro».

Perché ha scelto lo sport?

«È estremamente sfidante. Quando un atleta arriva da me, a fine settimana magari ha la gara e vorrebbe già portare a casa i risultati. Se sei stato bravo, nello sport il risultato è tangibile. Ma è sfidante anche la velocità, perché quel risultato non solo deve arrivare, ma deve arrivare subito. Mi piace anche il fatto che l'atleta sia molto disciplinato e questo mi aiuta. Il coaching è un allenamento mentale in cui io faccio la mia parte, ma poi ho bisogno che certe cose vadano allenate nella vita di tutti giorni. Non tutti lo fanno. Qualcuno si perde per strada».

Quanto dura il percorso?

«Dipende dalla persona e dall'obiettivo che si è posta. Io incontro le persone una volta ogni due settimane per un'ora e mezza. Di solito propongo un percorso di 6 sessioni, ma gli atleti vogliono sempre alzare l'asticella e raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi. Marcell, ad esempio, dopo le due medaglie d'oro alle Olimpiadi ora si è posto nuovi importanti obiettivi. Io sono 20 anni che lavoro su di me e non ho mai smesso. Ritengo sia un elemento essenziale per far bene la mia professione».

Come ha iniziato?

«Ero una ragazza piena di insicurezze, mi vergognavo persino ad entrare in un negozio da sola, mi sentivo costantemente inadeguata, non ero mai all'altezza, tutti erano più bravi, più belli e più simpatici di me. Sono uscita da scuola che non avevo le idee chiare su cosa fare della mia vita. Il papà aveva un'azienda che produceva cassoni per camion, ho pensato vabbè vado a lavorare nell'azienda di famiglia... Mi sembrava la scelta più logica».

Come ha scoperto il suo talento?

«Per 9 anni ho lavorato in azienda, mi annoiavo mortalmente, mi sono fatta venire tutte le malattie psicosomatiche della terra. Poi sono nate le mie figlie, due gemelle e dopo poco anche la terza. Mi sono dedicata totalmente a loro. Fintanto che...».

... Fintanto che?

«Il mio ex marito che lavora nella consulenza finanziaria mi ha portato a un corso di formazione sul raggiungimento degli obiettivi. Avevo 35 anni. Lì ho scoperto la figura del mental coach. Ho capito che era una professione fatta apposta per me. Ho iniziato un percorso personale. Ho fatto tantissima formazione. Ho frequentato corsi e approfondito moltissime tecniche, dal respiro all'ipnosi, dal problem solving alla programmazione neurolinguistica, dalla sfera coaching al voice dialogue. Verifico gli strumenti su di me e se sono efficaci comincio ad utilizzarli».

L'interesse per lo sport quando è arrivato?

«È iniziato abbastanza presto grazie alle mie figlie. Erano scatenate, ho contato di averle portate in ospedale 47 volte... equitazione a livello agonistico, poi rugby. Ho cominciato a lavorare con il loro team. E subito ci sono stati risultati pazzeschi, poi è stato un passaparola. Fintanto che non è arrivata la telefonata di un veterinario che mi ha proposto di lavorare con un fantino del Palio di Siena. L'ho seguito per 8 anni, e abbiamo vinto 5 pali insieme».

Prossimo obiettivo?

«Fare regolamentare la figura del mental coach. Non può essere sufficiente frequentare un corso on line di 5 giorni per ottenere un certificato da mentale coach. Penso che dovrebbe diventare consuetudine affiancare agli atleti un professionista che si occupi di lavorare sulla parte mentale. Un po' come è stato per la nutrizione. Tutti gli atleti a un certo livello hanno il nutrizionista. Tra i miei obiettivi c'è anche quello di costruire una mia scuola mia»

Il suo più grande successo?

«Sono tanti... Penso al fantino del palio di Siena, quando a causa di una caduta si ruppe il bacino in più punti, temeva di non correre mai più ma lo aiutai a cambiare la prospettiva da cui guardare questo evento per fargli percepire un valore positivo. È guarito più velocemente del previsto. A distanza di un anno esatto, vinse uno dei pali più belli della sua carriera».

Una specie di magia?

«Nessuna magia! L'importante è imparare a farsi domande che aiutino a cercare dentro di noi le migliori soluzioni. Un esempio è la storia di Viviana Bottaro, medaglia di bronzo nel karate Kata Tokyo 2020. L'anno prima aveva avuto un incidente, rotti tibia e perone. Mi diceva non ce la farò mai ad arrivare alle Olimpiadi, non sarò mai più quella di prima. Bene, le ho detto. Sarai altro. Nel suo caso, lei aveva una grande tecnica ma le mancava un po' il contatto con le emozioni. Noi abbiamo usato tutte le emozioni che lei aveva vissuto quell'anno a suo vantaggio. Ed è stata una finale da pelle d'oca su quel tatami. Tutte le parti che cerchiamo di nascondere arriveranno a sabotarci perché niente accetta di essere escluso».

Qualche consiglio buono per tutti?

«Numero uno: prenditi la responsabilità della tua vita. Due: impara a gestire le tue emozioni perché quando diventano nostre alleate ci permettono di raggiungere grandi risultati. Tre: se vuoi raggiungere un obiettivo ricordati che è necessario unire la testa con il cuore. Solo quando lavorano insieme riescono a darci tutta la spinta di cui abbiamo bisogno e...».

(... pausa di silenzio)

«... quattro: agisci! Per andare nella direzione che vuoi non basta la consapevolezza, bisogna impegnarsi ed agire. Ed anche allenarsi».

Possiamo dare anche un esercizio?

«Uno dei primi del mio libro, scrivere su un foglio quali sono tutti i punti di forza fisici, mentali, emotivi, e quando si pensa di avere finito, continuare a domandarsi: che altro ci potrebbe essere? Siate generosi! Siamo portati a portare l'attenzione a tutto quello che ci manca. Invece abbiamo tantissimi talenti che diamo per scontati e che ci rendono unici. Unici e non speciali».

Cioè?

«Cercare di essere speciali

ci porta fuori, ci fa fare cose per attirare l'attenzione degli altri. Cercare la propria unicità, invece, ci porta dentro. E noi possiamo essere quel pezzo perfetto di puzzle solo quando siamo completamente noi stessi».

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