«Così ho messo in ginocchio Cosa nostra»

Non è più Donnie Brasco. Non lo è da anni. È seduto in una casa di New York, in un quartiere anonimo, senza indirizzo, come un qualsiasi pensionato. Quando risponde al telefono parla piano, con calma, senza tradire i suoi settant’anni. Non è vero, come è scritto in qualche biografia, che parla bene italiano. Non lo conosce. Neppure il siciliano è la sua lingua. E come tanti italo-americani non ti sbatte in faccia la sua remota identità. Lui resta soprattutto uno nato negli States, nel New Jersey, a Paterson, la SilkCity, la città della seta, uno dei luoghi dove l’America ha acceso la miccia della rivoluzione industriale. Paterson è baco e pistole. È lì che Samuel Colt ha aperto una delle sue fabbriche di revolver, la mitica sei colpi del West. È lì che John Holland mise in cantiere i primi prototipi di sommergibile. È il cuore degli anarchici italiani, dove trovò casa Errico Malatesta e partì Gaetano Bresci, in direzione Monza, per uccidere Umberto I di Savoia.
Quando si parla di Joe Pistone, prima o poi qualcuno tira fuori la parola leggenda, la leggenda dell’Fbi, l’uomo che per sei anni è vissuto con i mafiosi newyorchesi, l’infiltrato, il poliziotto dalla doppia identità, la spia e il traditore, come lo chiamano ancora in certi caffè. Joe Pistone che per i soci del Ravenite Social Club di Little Italy o al Burgin Hunt and Fish club del Queens era quella testa dura di Donnie Brasco, uno che sta facendo carriera e i boss tenevano di conto, perché aveva cervello e sapeva fare affari. Donnie Brasco che ha vissuto la febbre del sabato sera non in discoteca, ma nei bassifondi del crimine, dove senza prendere appunti, tutto a memoria, registrava fatti, conversazioni, organigrammi, delitti e segreti delle grandi famiglie. Donnie Brasco che al cinema ha il volto di Johnny Depp. Donnie Brasco che vent’anni dopo il suo primo libro racconta ciò che allora non aveva potuto scrivere. Ora non c’è più il segreto giudiziario e Donnie Brasco, la mia battaglia contro la mafia americana (Mondadori, pagg. 350, euro 18) è senza veli. È Pistone che giura di dire tutta la verità.
Che fine ha fatto Donnie Brasco?
«L’ultima volta che l’hanno visto si raccontava davanti a una telecamera. È diventato un eroe di Hollywood e a me va bene così».
Non le manca?
«Ha fatto quello che doveva fare. Per me era solo un lavoro. Sono stato fortunato a crescere in un quartiere italiano dove la mafia era di casa: la conoscevo, non mi affascinava».
Sonny Black era il capo di Donnie Brasco, l’uomo che lo ha fatto entrare nelle stanze della mafia. Il suo corpo fu ritrovato senza mani. Era un segnale chiaro. Ecco che fine fa chi «tocca» le spie. Ha mai pianto per Sonny?
«No. Né per lui e né per Lefty, quello che nel film è Al Pacino, e appare come un mio amico. Erano mafiosi. Avevano scelto la via del crimine. Erano assassini. Nessun rimorso. Non mi dispiace aver tradito la loro fiducia. Qualche mese dopo la scomparsa di Sonny venne a trovarmi la sua amante, chiedeva protezione e mi raccontò quello che il mio capo disse quando scoprì il tradimento. Sai cosa disse Sonny?».
Cosa?
«Quel ragazzo mi piaceva. E non ho cambiato idea su di lui. Ha fatto il suo dovere e l’ha fatto bene».
Brasco era mafioso?
«Non ancora. Era sull’uscio. L’operazione è finita prima. Il bureau aveva paura che saltasse fuori la mia vera identità. Il rischio c’era, ma mi bastavano altri sei mesi per entrare nel cuore delle famiglie. Fu un errore fermarsi. Questo è quello che penso io. Alla fine comunque abbiamo vinto noi. Grazie alla mia testimonianza il procuratore Rudolph Giuliani è riuscito a decapitare la mafia. Tutti i capi sono finiti in carcere e sono morti lì».
Brasco era un delinquente?
«Donnie ha commesso diversi crimini. Non c’erano alternative. Non puoi infiltrati tra i delinquenti senza stare al loro gioco».
Ha mai ucciso qualcuno?
«No, ma c’è andato molto vicino. Ha ricevuto diversi “contratti”, cioè l’ordine di ammazzare qualcuno. E lì o spari o i capi ti fanno sparire. È stato fortunato, per un motivo o per l’altro le azioni sono sfumate. Per diventare affiliato avrebbe dovuto uccidere Tony Mirra, il suo primo contatto nella famiglia Bonanno, un essere spregevole. Ci siamo fermati prima».
Avrebbe sparato?
«Forse sì. Ma è una domanda che mi faccio ogni giorno».
I siciliani venivano chiamati «zips». Che vuol dire?
«Li chiamavamo così per come parlavano, con questo dialetto veloce e incomprensibile che ricorda il sibilo di una pallottola. Sono stati loro a portare la droga a New York».
Tano Badalamenti?
«Sì, questo vecchio zio che giurava di essere una persona perbene, generosa, che proteggeva i più deboli. Era un serpente velenoso. Gli americani e gli “zips” lavoravano insieme, ma si sono sempre guardati con diffidenza».
Ci vorrebbe un Donnie Brasco italiano?
«Con il mio amico Falcone ne parlavamo spesso. Ho conosciuto anche De Gennaro, ma questi sono affari italiani. Non ne so nulla.

Io posso solo raccontare la mia esperienza. So che a New York ha funzionato».
È rimasto qualcosa di Donnie Brasco in Joe Pistone, un residuo mafioso nella psiche?
«Come ripeteva decine di volte al giorno Lefty Guns Ruggiero: che ve lo dico a fare?».

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