Sfarzo, decadenza e rinascita. Cinquant'anni fa, il 6 marzo 1973, il Ludwig di Luchino Visconti, terzo capolavoro della celebre trilogia tedesca (dopo La caduta degli dei, 1969, e Morte a Venezia, 1971) fu presentato al mondo. Ma non era il film che conosciamo oggi. Sottratto al regista malato fu ridotto dai produttori da quattro ore a tre (in Germania addirittura due) e praticamente sfigurato. Ne ripercorriamo la romanzesca nascita (e rinascita) con Caterina D'Amico, figlia della sceneggiatrice prediletta e amica d'una vita di Visconti, Suso Cecchi D'Amico. Che questo film su fasti e follie del re di Baviera lo partorì due volte: quando lo scrisse con Enrico Medioli nel 1972, e quando nel 1980, quattro anni dopo la morte del regista, lo riportò alla versione integrale. Che nessuno, neppure lo stesso Visconti, era riuscito a vedere sullo schermo.
Luchino e Suso: amici e collaboratori inscindibili. Eppure hanno continuato tutta la vita a darsi del lei.
«Era il rispetto come s'intendeva allora. Per mamma Luchino era il signor conte, per lui lei era Susanna, non Suso. Guardi, che io mi chiamo Giovanna, chiariva lei. Infatti il nonno l'aveva battezzata così, ma poi, parendogli inopportuno che le sue due figlie avessero gli stessi nomi delle figlie di Shakespeare (Giuditta e Giovanna) la seconda cominciò a chiamarla Susanna. Per tutti Suso. Per tutti, tranne che per Visconti».
Cosa soprattutto ebbero in comune, nel loro sodalizio lungo trent'anni di vita e undici film?
«La serietà. Visconti era uno che metteva soggezione solo a guardarlo. Anche al mare, sotto l'ombrellone a Castiglioncello o a Ischia: era sempre Visconti. Mamma aveva lo stesso tipo di compostezza. Ma con più ironia. Commentando le magnificenze di Luchino, Che volete? sorrideva- il conte è fatto così. Mamma intuiva le sue idee prima che lui gliele esprimesse. Non ambiva mai a fare il suo film: ma quello di Luchino. Per questo quando tagliarono Senso perché durava troppo, la colpa è mia disse- Quando lo scrissi non conoscevo bene Visconti. Non potevo prevedere che in certe le scene si sarebbe dilungato».
Visconti non avrebbe dovuto girare Ludwig, ma il suo film d'elezione: la Recherche di Proust.
«Era già tutto pronto: sceneggiatura, luoghi, attori. Ma il preventivo era folle: la produttrice Nicole Stephane chiese tempo per trovare i quattrini, e Luchino pensò Intanto faccio Ludwig. Lei s'infuriò, gli fece causa. Lui contro-querelò. Tanto, una volta finito Ludwig, accomodo tutto. Faceva sempre così. Per Il Gattopardo promise a tutti gli attori che nei titoli avrebbero avuto il loro nome dopo quello di Burt Lancaster. Poi aggiusto tutto io. Anche a Laura Antonelli promise che non l'avrebbe fatta doppiare nell'Innocente. Tanto poi la convinco io. E invece morì prima della fine del film. Così la voce è rimasta quella dell'Antonelli. Mentre finito il Ludwig si ammalò gravemente. Così la Recherche non la girò mai».
Cosa seduceva Visconti nella storia del re pazzo, che idolatra Wagner ed edifica inutili castelli da favola?
«Certamente molte cose che erano anche sue. Wagner, che amava molto pur essendo un verdiano. La fuga dal reale in un dimensione fantasticata: per Ludwig quegli incredibili castelli bavaresi; per Luchino gli ultimi, sfarzosi film. E poi l'omosessualità. Ma quella privata, sublimata nell'arte; mai esibita o volgare. Luchino gli omosessuali che ostentano li chiamava checche. I Gay Pride di oggi li avrebbe considerati con orrore».
Con quel film voleva anche lanciare Helmut Berger.
«Veramente era Berger, che voleva essere lanciato. Luchino si votò alla creazione del suo protagonista come un padre paziente fa con un figlio ribelle. Helmut era terribilmente capriccioso, faceva uso di droghe, Luchino ne era terrorizzato. All'ennesima bizza sbottò: Basta, cambio protagonista!. Fu Lucio Trentini, l'organizzatore generale, a minacciarlo: Chiedi scusa al conte o ti spacco i denti. Helmut aveva un gran potenziale. Ma era incorregibile. E quando Luchino morì, perdendo il suo mentore si è perso anche lui».
Nella parte dell'imperatrice Elisabetta Visconti volle un'altra sua passione: Romy Schneider.
«La chiamava Romina. L'adorava. Ma litigò anche con lei. Nella prima scena che girarono, lei a cavallo in un circo, Romy si lamentò del bustino stretto che il costumista Tosi le aveva fatto. Apriti cielo! Tosi amava tipi come la Cardinale, la Mangano, mentre Romy la trovava brutta - figuriamoci! Con quel muso piatto da cagnolino!, diceva. E poi sul set c'era molta tensione: faceva un freddo polare, i camion della troupe si arrampicavano su strade di montagna ghiacciate, ogni volta pregavano perché arrivassero incolumi. Ma le bizze sul lavoro Luchino non le tollerava. Il lavoro è lavoro, diceva».
È vero che aveva dovuto faticare a convincerla a vestire ancora i panni di Sissi?
«Non credo. Romy sapeva che la Sissi di Visconti sarebbe stata molto diversa da quella dei suoi primi film. E poi sentiva quel ruolo talmente suo da chiedere a mamma di scrivergliene un terzo, sulla Sissi ormai anziana che finirà pugnalata dall'anarchico Lucheni. Mamma lo scrisse. Ma il film non si è mai realizzato».
Finchè, a riprese ultimate, la sera del 27 luglio 1972 a Roma, ecco il dramma.
«La lavorazione di Ludwig era stata massacrante, a Roma faceva un caldo atroce. Luchino mangiava molto, fumava tra le 80 e le 120 sigarette al giorno. Già sul set di Rocco aveva avuto un'avvelenamento da nicotina. Quella sera era con mamma quando, sulla terrazza dell'Hotel Eden, ebbe un ictus. Il primo a restarne stupefatto fu lui. Non pensava mai alle malattie; meno che mai alla morte. Ne fu molto, molto, contrariato. Per consolarmi mi dicono che è come se fossi finito sotto a un tram protestava- bella consolazione!».
E le vicissitudini del film erano solo all'inizio...
«Faticosamente Luchino ne ultimò il montaggio nella villa di Cernobbio. Ma il destino del film pareva segnato. In Italia fu ridotto da quattro ore a tre; in Germania (dove i tagli furono di due ore!) sollevò un mare di polemiche l'omosessualità del re. Luchino morì senza poterlo vedere come l'aveva concepito».
E due anni dopo, casualmente, sua madre legge sul giornale che i diritti di Ludwig vanno all'asta...
«Decide subito di acquistarli, per rimontare l'originale, e fonda con la troupe del film un'apposita società, la Ohonte (storpiatura toscana di Oh conte). Ma mia sorella Silvia l'avverte: vi servono anche i diritti di distribuzione, che sono di un certo Balini, uno che acquista le pellicole dalle case in fallimento. Con incredibile faccia tosta Silvia propone a Balini di cedergli il 50% dei nostri diritti contro il 50% dei suoi, di distruggere la versione corta del film, e giura di poter vendere quella integrale alla Rai, prima ancora che la Rai abbia accettato. Lui ride: Siete pazzi!. Ma infine dice si.
Silvia ancora si commuove pensando all'asta, quando venne tutta la troupe del Ludwig: operatori, elettricisti, macchinisti. Luchino era stato per tutti come un Giove. E tutti gli rimasero per sempre grati di averli ammessi nel suo Olimpo».
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