Così si mette ko l'intellettuale di sinistra

Se li conosci li eviti. O ci ridi sopra, come Sergio Ricossa in un pamphlet in difesa della borghesia, la specie più odiata dai cervelloni progressisti. Che a furia di riempirsi la bocca di concetti vacui si gonfiano come palloni

Così si mette ko l'intellettuale di sinistra

Esce nei prossimi giorni una nuova edizione di Straborghese (Istituto Bruno Leoni,pagg.182,euro20) il pamphlet di Sergio Ricossa edito per la prima volta nel 1980, qui accompagnato da un’ampia prefazione di Alberto Mingardi. Trattasi di una appassionata difesa della borghesia, scritta con grande umorismo e sorretta da uno stile brillante (che ricorda talvolta Tom Wolfe). Il borghese ama la fatica e accetta l’incertezza; la sua morale si fonda «sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale, e sulla punizione individuale». Per questo imputa a se stesso il proprio fallimento, non sente l’invidia, «non vuole ricevere senza dare, dare senza ricevere. Egli scambia». Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo uno stralcio del capitolo intitolato Quel che il borghese deve sapere sugli intellettuali di «sinistra».

di Sergio Ricossa

Riconoscere un tipico intellettuale di «sinistra» non costa alcuna fatica, perché egli si proclama tale ai quattro venti e fa lega solo con chi si proclama tale. Ogni altro intellettuale è per lui un essere inferiore, anzi, non è un intellettuale affatto: è un «servo dei padroni» o peggio. Benché facciano mazzo fra loro, gli intellettuali di «sinistra» non mostrano di amarsi. Si premiano a vicenda, ma è un do ut des, solo uno scambio di decorazioni nobiliari: «Dammi la gran croce del merito sociale, e ti darò il collare dell’ordine della giustizia egualitaria». Questo poi non impedisce loro di insultarsi. Così pure i nobili si sfidavano continuamente a duello; però rifiutavano di battersi con un plebeo, lo ritenevano indecoroso, e similmente gli intellettuali di «sinistra» non scendono a singolar tenzone con un uomo bollato di «destra».
Essi sembrano amare praticamente nessuno se non il proprio io, alla Narciso (fors’anche un po’ alla borghese?). Amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive, e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall’alto di un palco ben isolato ed elevato. Irreggimentare il popolo, metterlo in fila, comandarlo, tutelarlo anche, ma come si tutelano i minori, finalmente farsi applaudire dal popolo: ecco le seduzioni di chi sta a «sinistra». Seduzioni a cui è tanto più difficile resistere quanto più gl’intellettuali hanno origini lontane dal popolo. In tal caso, ci si può interessare al popolo come un socio della società per la protezione degli animali può interessarsi agli animali: con intensità e distacco. Il borghese generalmente non può: è ancora nel popolo o ne è appena «emerso» e non lo rinnega. Il populismo dell’intellettuale di «sinistra» non è segno di origine popolare, è segno del contrario.
Ben inteso, anche a «sinistra» c’è chi resiste a quelle seduzioni. Per quanto gl’intellettuali di «sinistra» si compiacciano di erigersi a circolo omogeneo ed esclusivo («unitario»), per quanto si sforzino di somigliare a quei teologi che Huygens paragonava ai porci in quanto «se tiri la coda a uno, gridano tutti», il borghese, a costo di scontentarli, deve distinguerli e separarli a uno a uno. Al solito, così facendo scoprirà, in mezzo a tanti collettivisti, qualche borghese autentico, che non sa di esserlo o lo sa anche troppo e lo nasconde. Fra chi inveisce contro la borghesia, scoprirà i sinceri e i truffaldini, i saputi e gl’ignoranti. Quel che mai il borghese deve concedere è che essi, gli intellettuali di «sinistra», abbiano più autorità morale o scientifica o di qualunque altro genere per discutere di giustizia, democrazia, elevazione degli umili, progresso sociale, libertà. Non ce l’hanno soprattutto quando pretendono di averla e peccano di orgoglio o ipocrisia.
Gli intellettuali di «sinistra», questo sì, hanno messo a punto un loro linguaggio speciale, oscuro e suggestivo, per sentenziare su quei temi. Il «sinistrese» ne è la riduzione a gergo corrotto e ridicolo. Ma nelle forme superiori, il linguaggio di «sinistra» è uno strumento pericolosamente, subdolamente efficace. Grazie a ciò, ci volle più di un secolo, ci vollero molti lutti, per accorgersi che quasi tutta l’economia di Marx è un mero gioco di parole: più che un castello di carte, un castello di schede da vocabolario. I più perspicaci lo notarono fin dal principio, e tuttavia manchiamo oggi ancora di un metodo completo per demistificare qualunque verbosità del genere. Abbiamo delle note sparse qua e là, per esempio nei Sistemi socialisti del borghese Vilfredo Pareto, il massimo economista italiano, dove si smascherano regole «sinistre». «Impiegare a favore della propria tesi solo termini associati a una idea di approvazione». Le associazioni di idee valgono più delle deduzioni logiche. «Le definizioni più oscure sono le migliori. Esse sembrano estremamente profonde, e molti credono di vedervi cose meravigliose, che non esistono se non nella loro immaginazione. È semplicemente un caso di autosuggestione e allucinazione». I termini astratti sono preferibili a quelli concreti: i primi ammettono la perfezione, i secondi no. Le contraddizioni sono lecite in nome della dialettica. Il modo migliore per non essere smentiti è affermare quanto non può essere sottoposto a verifica. L’insensato, ciò che manca di significato, è una delle cose più inoppugnabili dell’intellettualità.
Naturalmente, l’arte di imbrogliare con le parole è antichissima e onorata dall’umanità in generale. Invero, non c’è ragione per non ammirare i grandi artisti in qualunque campo, purché non si spaccino per grandi scienziati, grandi filosofi. I trucchi retorici dei sofisti dilettavano i greci purché fossero onesti e dichiarati o sottintesi, innocenti come quelli degli illusionisti o prestigiatori a teatro. Protagora chiedeva ai suoi allievi di pronunciare l’elogio di una cosa qualsiasi e immediatamente dopo la denigrazione della stessa: insegnava perciò a vaccinarsi contro la credulità, la seduzione verbale tanto simile alla seduzione musicale, ma assai più rischiosa. Oggi dobbiamo temere che l’arte si applichi a fini scorretti, e che non si osi denunciarla perché è una grande arte.
Pareto cita alcuni brani di Hegel come questo: «Lo Stato è realtà dell’Idea morale, lo spirito morale in quanto volontà sostanziale, apparente, chiara a se stessa, che si pensa e si sa, e che compie ciò ch’essa sa, nella misura in cui lo sa». Pareto è Pareto e non teme di dire: «Tutto ciò è incomprensibile e somiglia alle allucinazioni di un sogno». Ma innumerevoli altri non hanno questo coraggio, altri ancora trovano conveniente per sé imitare lo stile hegeliano, che nel frattempo è divenuto lo stile universale di chi vuole passar per colto al minimo costo. Non solo per suo mezzo si spaccia qualunque idea: di più, si fa «cultura» senza idee. Basta imparare a memoria l’apposita lingua intellettuale, e farla suonare, ciò che è alla portata di tutti, diversamente dalla genialità o anche solo dall’intelligenza. «Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità» (Sciascia). Il non cretino di «sinistra» ama farlo credere, e ci guadagna. Come tutti i dogmatici, ama la cavillatio.
Il borghese, che voglia difendersi o meglio attaccare, farà bene a lasciare agli avversari l’arte del bla-bla-bla. Non è arte per lui. Nel carattere borghese c’è un gusto insopprimibile per la concretezza, che è poi quanto gli fa prendere sul serio l’individuo (la realtà) e non il collettivo (l’astrazione). Appunto, eserciti questo gusto e non prenda sul serio la logorrea degli intellettuali di «sinistra», non se ne lasci invischiare. Ne rida, la collezioni negli stupidari, quando ne incontra un campione ragguardevole. La studi col solo scopo di esprimersi nello stile opposto il più possibile. Miri alla chiarezza, e le sacrifichi i fronzoli; miri alla semplicità, a costo della semplificazione.

Segua la lingua di Machiavelli, che della sua opera diceva: «Io non l’ho ornata né ripiena di clausule ample, e di parole ampullose e magnifiche, e di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare; perché io ho voluto o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata».

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