Così si soffia sul fuoco dell’intolleranza

La società sta cambiando: ma chi ragiona con gli schemi dell’ideologia ci vuole divisi in base al colore della pelle

Così si soffia sul fuoco dell’intolleranza

«Mio padre m'ammazza». Il ragazzino con la felpa blu non ha più nulla del duro. Bastano due schiaffoni del padre. Tor Bella Monaca è la frontiera di Roma, una borgata bastione, quasi un simbolo. L'orizzonte è cemento e case popolari, oltre le mura postmoderne di questa città eterna, quel raccordo anulare che segna l'inizio del Far West. Tor Bella Monaca è la capitale di quello che viene chiamato il Municipio delle torri, il più popoloso di Roma, 215mila abitanti. Quindicimila sono stranieri, in maggioranza romeni. È qui che Tong Hong-shen, due giorni fa, è stato massacrato di botte da una banda di adolescenti. Hong-shen ha 35 anni, passava di qui per tornare a casa. E il motivo per cui è stato aggredito è la sua faccia, gli occhi, il profilo etnico. Hong-shen è cinese. I suoi aggressori vanno a caccia di stranieri. È la ragione sociale del loro stare insieme. La mattina bene o male vanno a scuola, la sera si trasferiscono in una Hollywood cattiva, un altro mondo dove sfogare il nichilismo e inventarsi una sporca identità. Negli ultimi tempi, sotto queste torri periferiche, bande di adolescenti hanno sfasciato le auto dei vigili, un'ambulanza del 118, i vasi del centro commerciale. Qui a Tor Bella Monaca, come in tutte le banlieu del mondo, non è razzismo, ma violenza senza ideologia. Sono pugni, sputi e insulti che galleggiano nel vuoto. Ma sono maledettamente reali. E fanno male.
È un'Italia che fatichi a riconoscere. E davvero c'è da chiedersi se siamo diventati tutti razzisti. Tutto in pochi mesi. Milano, Verona, Parma, Roma, un quadrilatero di odio, dove ti aspetti che da un momento all'altro spunti il fuoco di una croce e una processione di cappucci bianchi. Italia xenofoba, Italia razzista. E perfino la camorra si inventa una maschera razzista. Il problema è che questa Italia è una caricatura, ci sono pezzi di verità, poi deformati dall'ideologia. C'è qualcuno che ha una fretta bestiale di evocare il peggio. Un esercito di piccoli Savonarola che vogliono vedere in faccia il mostro, per dare una forma concreta a quel desiderio malsano di apocalisse che si portano dentro. L'equazione è facile: questa Italia, questa Italia dove governa Berlusconi, non può che essere il peggiore dei mondi possibili. Non basta non votarlo. Non basta fare opposizione. Bisogna toccare il mostro, vedere in azione il Golem cattivo che rappresenta l'anima nera di questa destra. Ma questo non aiuta l'Italia e non combatte il razzismo. Non si combatte, come hanno fatto i cronisti di un quotidiano, dicendo a una prostituta: dì che ti hanno violentata perché nera. Ti paghiamo, basta che ci dici quello che vogliamo noi. Quella ragazza era nella stessa stanza con la lucciola della «foto choc», quella lasciata a rotolarsi per terra mezza nuda. Ora sappiamo che in onore di uno scoop sul razzismo forse in quella storia la realtà era diversa. È questo l’errore, confondere realtà e finzione. E chi ci perde è la realtà. Come nell’altra storia di Parma, vera, con il vigile che prima picchia un povero ragazzo nero e poi l’offende.
Il razzismo è un muro, qualche volta vero, altre immaginario. E confondere la camorra con il Ku Klux Klan è un errore, quella gente non uccide per il colore della pelle, spara e basta. Spara a quelli che sgarrano, spara per potere, per soldi, per vendetta. A Castelvolturno, la camorra voleva regolare i conti con due africani che insidiavano il suo territorio, i suoi malaffari. Un modo per dire: qui siamo noi i padroni. Il crimine è nostro. È un monopolio. Non c'è spazio per altri. Sono andati lì e hanno sparato. Dovevano ammazzarne due e ne hanno massacrati sei. Tanto la vita, per questi bastardi, non conta nulla. Due o sei è solo un sovrapprezzo. È razzismo? No, è camorra.
A Milano un senegalese litiga con un ambulante. «Ti do dieci minuti per sparire da qui». Spinte, grida, arriva un altro ambulante, sempre italiano, e con una mazza da baseball colpisce il senegalese. L'uomo cade a terra, ferito. I passanti lo soccorrono. Il senegalese occupava uno spazio che non era suo, vendeva dove non doveva vendere. È razzismo? È una maledetta storia di piccoli interessi. Guerra tra poveri, meschina, senza pietà, senza solidarietà. Il principio è: tu vieni qui e mi rubi i clienti. Se sei italiano ti caccio a calci, se sei straniero e senza documenti è peggio. Ma il razzismo è la coda. Non la causa.
È qui il problema. Il razzismo diventa un teorema che spiega tutto. L'antirazzismo, di conseguenza, non è più un valore, ma un'ideologia. Ed è il modo più facile per annacquare un valore. Amina è somala. È sposata con un italiano e ha 51 anni. A luglio sbarca a Ciampino, da Londra. È con tre nipoti e un altro bambino. La polizia la ferma, la fa spogliare, la perquisisce per quattro ore. Lei dice: «Mi hanno accusato di traffico di bambini e spaccio di droga». Forse l'hanno offesa. Messa così è razzismo. Non c'è dubbio. Ma c'è un pezzo che manca. La signora è «un'ovulatrice», per due volte durante i suoi viaggi è stata beccata a trasportare droga, nascosta nella pancia. Il marito è un noto trafficante di stupefacenti. Qualcosa cambia.

Non tutto. Se c'è stato abuso di potere va punito. Ma cosa c'è alla base della perquisizione? Il razzismo o il sospetto? Non serve gettare altro cemento sul muro. Quello del razzismo è già alto. Il resto fa solo rumore.

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