Così il testimonial famoso si vende meglio del prodotto

Il caso Belen-Tim dimostra come affidare la réclame a una regina del gossip possa rivelarsi controproducente

Così il testimonial famoso 
si vende meglio del prodotto

C’è la sindrome di Stendhal e c’è la sindrome di Spothal.
La prima - spiegano i medici - «è il nome di una affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d'arte di straordinaria bellezza».
La seconda, detta anche sindrome di Belen, si scatena quando - nel corso dello spot Tim - il telespettatore (almeno quello di sesso maschile, con età compresa tra i 14 e i 99 anni) si concentra esclusivamente sulle forme della Rodriguez, ignorando completamente le offerte dell’azienda di telefonia mobile che quella réclame l’ha commissionata.
Insomma, una specie di pubblicità-boomerang con effetto-Tafazzi incorporato.
L’argomento torna di attualità, ora che la comunicazione tra l’ex fidanzata di Marco Borriello, Fabrizio Corona ecc. e l’azienda Telecom Italia Mobile sembra lì lì per cadere. Troppo aggressiva Belen, la regina del gossip, per gli utenti Tim, che infatti l’hanno «scaricata». Ma non tutti, visto che ieri in rete circolavano anche appelli di segno opposto: «Se va via Belen, stracciamo l’abbonamento Tim...». Intanto è caccia ai responsabili del flop Tim. Colpa della sindrome di Belen? Forse sì. Ma anche dalla banalità comunicativa degli spot. E dire che la Tim, per la sua ultima campagna televisiva, non aveva certo badato a spese, ingaggiando anche Christian De Sica, il principe del box office natalizio. Peccato però che i «Caroselli» Tim finiti in televisioni sembrino ideati da uno scolaretto elementare cresciuto a playstation e cinepanettone. Così al povero telespettatore non rimaneva altra scelta che buttare l’occhio sulla camicetta siliconata di Belen in versione poliziotta supersexy, con tanto di hot pant a fasciare un lato B decisamente da serie A.
Ma la storia della pubblicità è piena di casi in cui l’eccessiva bellezza della protagonista di uno spot ha rischiato di metter in crisi la «visibilità» del prodotto reclamizzato; in altri casi è accaduto l’opposto, cioè con il marchio che ha beneficiato clamorosamente della «luce» riflessa dalla propria testimonial.
Gli esempi non mancano: dalla cucina Scavolini di ieri diventata «la più amata dagli italiani» negli anni ’80 grazie a Raffaella Carrà, a quella di oggi che punta su Lorella Cuccarini; dagli orologi Omega al polso di Nicole Kidman al profumo Dolce&Gabbana che Monica Bellucci mostra di gradire particolarmente; dal caffè Lavazza con la new entry Julia Roberts a quello schianto di Charlize Theron che si spoglia con sapiente lentezza, aromatizzata da due gocce di J'adore Dior (molto meglio delle due gocce di Chanel N°5, tanto care a Marilyn Monroe).
Volti e corpi di donne dallo charme eccezionale, certo inarrivabile per le più ruspanti testimonial di casa nostra, che pure - in termini di popolarità - riscuotono un notevole successo: da Vanessa Incontrada, partner di Panariello nello spot Wind, a Ilary Totti sicuramente più spigliata del marito nella pubblicità Vodafone; da Teresa Mannino che per la compagnia telefonica Tre tenta l’impresa (disperata) di apparire - agli occhi di Raoul Bova - più desiderabile di quella bonazza si Madalina Diana, a Luciana Littizzetto acida come non mai nel tirare la volata ai prodotti Coop.


Infine Milly Carlucci alle prese con il Galbanino, sempre fedele allo slogan «Galbani vuol dire fiducia...». Che - detto da una in grado di far ballare sotto le stelle certi «provoloni» - assume tutto un gusto speciale...

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