Cosa si nasconde dietro l’urlo: "Devono andarsene"

Le facce urlano insulti e rabbia. Le donne a Napoli sono sempre in prima fila e sembrano le più cattive. Il coro è sguaiato e ripete la stessa litania: «Se ne devono andare». Ponticelli è una terra di nessuno, il confine del degrado, qui finisce la periferia, di là cominciano i campi rom. Napoli è Napoli, dicono. C’è la mamma che ha visto sua figlia nelle braccia di una zingara. Ci sono anni di diffidenza. C’è la malaguerra degli ultimi. C’è l’ombra della camorra e il timore che l’antistato in queste storie ci sguazzi, come è già successo con i rifiuti, come accade ogni volta che il patto di legalità con i cittadini va in cancrena. Non ci sono cartelli come quello che è apparso ad Alcudia, sull’isola di Maiorca, in Spagna. Sei parole di razzismo sulla vetrina di un negozio di informatica: vietato l’ingresso a cani e romeni. Ma le molotov già volano. Ed è difficile dire se fanno più male le parole o il fuoco delle bottiglie. Napoli, purtroppo, non è un caso isolato.
L’Italia sta bruciando in una miscela di delinquenza, paura e intolleranza. Le voci di disagio, di gente che minaccia, lamenta, chiede aiuto, scappa arrivano dai palazzoni milanesi di Precotto e dall’orizzonte post industriale del quartiere genovese di Teglia. Pavia e Viareggio sono in allerta. Bologna, Firenze e Reggio Emilia mostrano da tempo un certo nervosismo, che il buon senso appenninico fatica a contenere. La paura sale nelle campagne del bergamasco e del bresciano. Torino fa i conti con lo sciame di borseggiatori che parte la mattina da via Reiss Romoli o da via Paolo Veronesi. Tutto il Nord da questo punto di vista è una polveriera. A Palermo fanno i conti con i rom kosovari, serbi e montenegrini, residuo di guerre e peregrinazioni balcaniche, asserragliati da 10 anni all’ombra della Favorita. Basta poco per accendere la miccia anche a Foggia e Cosenza. Basta un piccolo boss o un paio di mezzetacche delinquenti. Ma poi non serve guardare tutto così dall’alto, basta registrare quello che accade ad altezza d’uomo. Ogni tanto vedi qualcuno che sbraita davanti a un mazzo di rose, all’insistenza del venditore, all’accattonaggio romantico, ai tergicristalli che scattano di fronte al semaforo rosso e al lavavetri in tuffo sul parabrezza. E questi sono piccoli fastidi quotidiani, non reati. Il nervosismo è invece il segno di una pazienza al lumicino.
Le parole di De André sono solo una lontana utopia. Non c’è nulla nel suono di Khorakhané in questa Italia, dove non basta più dire: «Ora alzatevi spose bambine, che è venuto il tempo di andare, con le vene celesti dei polsi, anche oggi si va a caritare». Resta solo la rabbia. L’errore è stato sottovalutare la paura. Quando ti arrivano in casa, di notte, e tu preghi di non svegliarti, perché potrebbe finir male. Quando neppure le sbarre alla finestra ti rendono sicuro. Quando lo stupro è una possibilità troppo vicina. Quando nei campi rom vince la legge del riciclaggio, dello spaccio, della zona franca, cittadelle del crimine dove la polizia ha paura ad entrare, quando i numeri non tornano e superano la soglia sociale di tolleranza e l’immigrazione per anni viene gestita con il senso di colpa, l’indifferenza, lo state buoni se potete, quando tutto questo accade, la paura diventa un veleno. È la paura che uccide le società aperte. La paura costruisce muri, isola, discrimina, lacera, mette il cappuccio bianco sulle teste vuote degli uomini. La paura non fa distinguere più tra buoni e cattivi. La paura finisce per far ragionare la gente per razza, etnia, religione. E gli uomini non sono più uomini, ma albanesi, romeni, zingari, extracomunitari, maghrebini, alieni, diversi, quelli che devono tornarsene a casa loro. La paura diventa odio.
L’unico modo per risolvere la questione dei campi rom è la legge. Cancellare le zone franche. Non ci sono altre strade. Questo è un discorso che hanno capito molti sindaci. Anche quelli di sinistra. Lo hanno capito a Bologna e a Pavia. Lo ha capito anche Zapatero in Spagna, uno che legittima matrimoni gay e adozioni lesbo, ma che contro i clandestini ha schierato l’esercito. E qualche volta ha sparato.
Non l’ha capito invece chi continua a raccontare i campi rom come isole felici, una sorta di Macondo di Garcia Marquez, dove non c’è igiene, dove ci sono «bambini scalzi, vestiti con abiti logori, ma sorridenti, sempre sorridenti». Dove tutti vanno a scuola. In questo luogo descritto come il paradiso in terra, «qualcosa di dolce, di leggero», non c’è naturalmente traccia di illegalità. Non ci può essere. Non ci sono clandestini. Neppure quelli che ieri la polizia ha certificato in un blitz che ha coinvolto mezza Italia. Erano 400, ma forse, per chi non ha voglia di vedere, non esistono.


Ora siamo al bivio: possiamo riconoscere che c’è un problema o ignorarlo. La seconda strada si fa solo a occhi chiusi. I signori con il cappuccio bianco, i bravi ragazzi con la svastica e i padroni dell’antistato non aspettano altro. Buon viaggio.

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