Washington – Con l’appuntamento del 2 Novembre negli Stati Uniti si scelgono 37 senatori (un terzo del totale), 435 deputati (l’intera Camera dei rappresentanti) e 37 governatori. Sono le elezioni di “midterm” (metà mandato), chiamate così perché cadono esattamente a metà del mandato presidenziale. Per ciascuna di queste elezioni negli scorsi mesi si sono disputate le elezioni primarie, sia tra i democratici che tra i repubblicani. Battaglie politiche “locali” che però, nel complesso, vanno a costituire un voto politico nazionale a tutti gli effetti: una sorta di referendum pro o contro il presidente in carica. Barack Obama è in grosse difficoltà. Quasi tutti i sondaggi indicano che il gradimento nei suoi confronti è in caduta libera. Un trend negativo iniziato con la clamorosa vittoria del semisconosciuto repubblicano Scott Brown nelle suppletive del Massachusetts, lo scorso gennaio. Quello che per più di sessantanni era stato il feudo dei Kennedy passò alla destra. Per molti l’inizio della discesa di Obama. Anche se il presidente, comunque vadano a finire le elezioni di midterm, avrà altri due anni di tempo per convincere gli americani di farlo rimanere alla Casa Bianca.
Un referendum su Obama Tecnicamente il presidente non è coinvolto in prima persona come candidato nelle elezioni. Né come capo-partito. Di fatto, però, il risultato finale delle mid-term va a incidere sulla sua leadership. Da un lato perché il controllo delle due camere è essenziale per realizzare le riforme legislative necessarie per portare avanti il programma. Dall’altro perché il vento del cambiamento, o termometro politico che dir si voglia, si misura anche con le “bandierine” che i repubblicani (colore rosso), o i democratici (blu), riusciranno ad apporre sulla mappa degli Usa. In questo momento i democratici hanno la maggioranza sia alla Camera (256 a 179) che al Senato (59 a 41), dopo le due vittorie consecutive, nel 2006 e nel 2008. E’ un indubbio vantaggio, per un presidente, avere l’appoggio del Congresso (parlamento). Però non è detto che, alla fine, ciò sia determinante. Bill Clinton, ad esempio, governò sei anni con un congresso a guida repubblicana, e arrivò alla fine del suo secondo mandato con un indice di popolarità altissimo. La “coabitazione” (presidente democratico, Congresso repubblicano, o viceversa) può produrre buoni risultati, perché si spingono le parti a limitare glie estremismi cercando di individuare soluzioni politiche condivise. Non è un elogio al “centrismo” ma la semplice constatazione che, un sistema istituzionale con adeguati pesi e contrappesi, come quello degli Usa, può funzionare benissimo anche in questo modo.
Campagna elettorale Si è giocata quasi tutta sull’economia, com’era inevitabile. La ripresa è lenta, i repubblicani sono andati all’attacco soprattutto su questo punto, accusando Obama di non essere all’altezza con le sue misure: giudicate, al contempo, troppo deboli ma anche troppo costose per i conti dello Stato. Su questo fronte, sul peso eccessivo dello Stato e sul presunto “socialismo” di Obama, ha spinto molto il Tea Party, il movimento indipendente anti-tasse che si batte per uno Stato minimo, la riduzione delle tasse e la riscoperta dei valori legati alla tradizione. Il Tea Party ha presentato propri candidati alle primarie, contribuendo, di fatto, a rilanciare il partito repubblicano, dopo la batosta elettorale del 2008.
Chi vince e chi perde Per i democratici sarà un successo riuscire a conservare almeno una camera. I repubblicani, invece, puntano al “colpaccio”: prendere la maggioranza alla Camera e al Senato, per tentare, in questo modo, di consegnare l’avviso di sfratto a Obama. Anche se, come dicevamo, per le presidenziali si voterà tra due anni e tutto è ancora possibile. Ovviamente il risultato alla fine dovrà essere “pesato”. Conterà non solo il numero complessivo di senatori e deputati vinti, e la maggioranza nei rispettivi rami del parlamento. A fare la differenza sarà anche la corsa per i governatori: sono 39 quelli che saranno eletti. Di questi oggi 20 sono democratici, 19 repubblicani.
Ipotesi Congresso “diviso” Secondo gli ultimi sondaggi i democratici potrebbero mantenere, sia pure di poco, la maggioranza al Senato, mentre per i repubblicani è quasi scontata la conquista della Camera. Cosa accadrebbe, in questo caso, con un parlamento diviso a metà tra i due partiti? Un caso che non si verifica dal 1930. Un Congresso diviso a metà accentuerebbe la difficoltà ad approvare le leggi. Ma sarebbe comunque un bel colpo per i democratici, che da mesi sono costretti a inseguire col fiatone. Obama sta già preparando un’agenda politica “bipartisan” per i prossimi due anni: niente più muro contro muro, almeno su alcuni temi cruciali. Secondo gli strateghi del presidente ci sarebbero possibilità di dialogo sulla riduzione del deficit, l’approvazione dei trattati di libero scambio e l’educazione, con l’estensione della legge “No Child Left Behind” firmata da Bush nel 2001, per dare vita a un sistema scolastico standardizzato a livello nazionale.
Il 2 Novembre potrebbe nascere un “Obama 2”: meno ideologico e più pragmatico. Quasi lo stesso che avvenne, anni fa, per Clinton. Resta da capire a cosa Obama vorrà e potrà rinunciare, a partire, prima di tutto, dalla riforma sanitaria.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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