Con toni di accorato ecologismo, Giulia Maria Crespi ha scritto una lettera aperta agli elettori milanesi in appoggio a Giuliano Pisapia, pubblicata ieri da Repubblica.
A che titolo la signora raccomanda ai concittadini il cambio a Palazzo Marino? Con modestia si definisce «vecchia rappresentante della borghesia milanese», preoccupata delle sorti della città. Ma molti sanno che è fondatrice del Fai, benemerito sodalizio che tutela le bellezze d’Italia. Mentre gli anziani ne ricordano le imprese come proprietaria del Corriere della Sera, ultima di una dinastia editoriale (92 anni in Via Solferino) di origine cotoniera.
Nella lettera, la signora boccia venti anni di centrodestra con ottica naturalistica: troppo smog, poco verde, abusi edilizi. Critica ficcante ma tale da potersi applicare indifferentemente a Roma, Parigi, Mosca e New York. Sono «convinta - afferma la scrivente - che un cambio di amministrazione non potrà che essere salutare per la città». E non si può darle torto, poiché esprime l’umana speranza che il domani sia migliore dell’oggi. Ma invece di concludere, prosegue: «Posso assicurare... che l’avvocato Pisapia non toccherà ambiti estremisti che sono totalmente estranei allo spirito milanese, come pure al mio» e, dunque, nessuna «paura del cambiamento». Con le considerazioni conclusive purtroppo, la signora ha strafatto, danneggiando l’incolpevole protetto. Che Giulia Maria Crespi garantisca sul non estremismo di chicchessia è come se un tabagista giurasse sulla salubrità delle Gauloises.
Oggi la signora Crespi è una ultraottantenne di bella presenza e dolci, ancorché infantili, convinzioni. È contro gli Ogm e ha litigato anche con l’amico Veronesi, che l’ha guarita da una brutta malattia, perché il testardone è favorevole ai transgenici. Per lei, gli Ogm sono invece un attentato ai sapori, portano malattie e - peggio di tutto - arricchiscono le multinazionali. La signora è anche un’assertrice della omeopatia e della antroposofia, è contro il piano case del governo e contro il Cav in generale. Insomma, è una borghese pensante e educata, che detesta la tv di Berlusconi, ha un debole per Fabio Fazio che l’ha ospitata, condanna nauseata il bunga bunga, soffre dubbiosa per Strauss-Kahn.
Ora scordatevi questa deliziosa e canuta nonnina che raccomanda Pisapia ed esclude per lui, per sé e per Milano qualsiasi aggancio con l’estremismo rosso. Facciamo un salto di quarant’anni e torniamo nella Milano di Piazza Fontana, degli anarchici Valpreda e Pinelli, di Giangiacomo Feltrinelli che muore sul traliccio, dell’omicidio Calabresi.
La ricchissima Giulia Maria ha un salotto in corso Venezia dove dà il meglio di sé l’intellighenzia di sinistra. È la donna più «in» di Milano, proprietaria del Corsera con altri due rami della famiglia che le lasciano carta bianca. Dirige il giornale Giovanni Spadolini, con spirito equo, liberale e istituzionale. Nella usuale cronaca dell’epoca - morti ammazzati, spranghe, katanga - segue le indicazioni di poliziotti e giudici che però non piacciono ai sessantottini in eskimo per i quali sono tutte panzane. È il periodo della controinformazione, cioè quella proveniente da studenti e bande armate, cui molti giornalisti abboccano. Spadolini no.
Questo comincia a irritare Giulia Maria che ha tra i frequentatori del suo salotto, e consigliere principe, Mario Capanna. È uno spilungone, con un vocione da sergente, che capeggia a Milano la contestazione. I due si compensano: lei si sente rivoluzionaria frequentandolo; lui socialmente appagato affiancando la miliardaria. La «contessa rossa», così è chiamata, si vergogna del suo giornale che rifiuta di mettere la vela al vento che tira e nutre rabbia contro Spadolini per la linea legalitaria. Vorrebbe cacciarlo, anche se dal giorno dell’insediamento non sono ancora trascorsi i tradizionali cinque anni ai quali ogni direttore del Corriere ha diritto.
Un giorno, i capelloni manifestano davanti al palazzo di via Solferino cercando di sfondare porte e finestre. Tra loro c’è l’editore Feltrinelli. L’indomani il giornale fa il suo nome in cronaca. Crespi si inviperisce perché Giangiacomo è suo amico e non le va si sappia che è un esagitato. Inoltre, le ha giurato che non c’era. A Giulia Maria sembra un buon pretesto per licenziare Giovannone e gli fa un liscio e busso dell’accidente. Ma Franco Di Bella, futuro direttore, aveva una foto di Feltrinelli tra gli energumeni. La prova parlava da sé e il tentativo fallisce. Giorni dopo, un altro gruppo di trogloditi, stavolta guidati da Adriano Sofri, bombardano il Corriere con molotov e appiccano incendi qua e là. Spadolini, spirito pacifico e cuore d’agnello, si spaventa a morte e medita di piantare baracca e burattini. Prima di avere il tempo di parlarne con Crespi, questa - profittando di un suo giorno di assenza - lo licenzia in tronco.
Giovannone era al suo quarto anno ed è il primo, dal 1925, a essere silurato anzitempo. Per la brutalità dell’agguato, la contessa rossa è promossa all’istante «zarina», nome con cui è tuttora apostrofata. La sera in corso Venezia, si svolge un euforico brindisi a sorsi di Moet con Capanna. Costui, lustri dopo, chiamerà quel periodo - e con ragione, visto come l’ha vissuto- «Anni formidabili».
La zarina sceglie come nuovo direttore, Piero Ottone, uno snob genovese, appassionato di vela e regate, che si rammarica di non essere inglese e finge di esserlo nei vestiti e nel birignao. In realtà è italianissimo e si mette al servizio della padrona, stravolgendo con dosi equine di sinistrismo il già quotidiano della borghesia lombarda. Giulia Maria, che nel frattempo era rimasta la sola Crespi nel Corriere (gli altri due rami, capita l’aria, avevano venduto nel ’73 a Moratti e Agnelli), metteva becco su tutto. Era insoddisfatta delle critiche d’arte di Dino Buzzati troppo tradizionaliste e voleva addirittura convocarlo a casa sua per contestargli di «valutare la pittura in un’ottica borghese». Non arrivò a tanto, ma Indro Montanelli, che raccontava spesso l’episodio, concludeva: «Era impazzita», riferito alla zarina. Presto i suoi strali si sarebbero rivolti contro di lui.
Bisogna sapere che nel salotto Crespi imperava la pungente Camilla Cederna dell’Espresso, talmente inventiva da stare al giornalismo come il Berlusca ai certosini. Secondo lei, Feltrinelli fu ucciso dai fascisti, Pasolini per un complotto, Pinelli da Calabresi. Tralasciando le balle sul presidente Leone per le quali dovette pagare un risarcimento che la gettò sul lastrico. Per le sue partigianerie che entusiasmavano gli allocchi, specie di sinistra, Indro la detestava. Un giorno, chissà se apposta, Ottone gli chiese un «ritratto» di Camilla. Montanelli la polverizzò mandando la zarina sulle furie. Assecondando la padrona, l’inglese licenziò Indro. Il Corriere si scisse e nacque questo giornale.
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