Una sentenza storica, quella della Corte Suprema degli Stati Uniti, che questa volta interviene sul delicato fattore della razza, tema delicatissimo, negli Usa, ancor di più. Il massimo organo di controllo costituzionale del Paese ha stabilito che le università e i college non potranno più tenere in considerazione l’appartenenza razziale nel valutare le richieste di ammissione degli studenti.
Una vecchia questione: cos'è l'affirmative action
Accolto, dunque, il ricorso contro alcuni atenei, tra cui la prestigiosa Harvard. I giudici hanno inferto così un colpo alla cosiddetta affirmative action, una sorta di discriminazione positiva finalizzata ad una maggiore inclusione delle minoranze di vario genere: qualcosa che nel nostro sistema può essere assimilabile, come principio, alle quote rosa e che in America viene ritenuta da molti controversa e penalizzante. Lo strumento giaceva come corollario del Civil Rights Act che, nel 1964, in piena amministrazione Johnson, ribadì i diritti fondamentali di tutti i cittadini, rimarcando l’uguaglianza legale di bianchi e neri.
Concepita come strumento per favorire l’integrazione delle comunità non bianche e l’accesso all’istruzione di qualità dei giovani penalizzati dall'appartenenza ad altri gruppi etnici, oggi spesso viene additata come misura vetusta, rea di immettere nel sistema studenti non abbastanza validi solo per via delle loro ascendenze, penalizzando tutti gli altri. Lo spirito della norma, inoltre, era quello di consentire la formazione di classi di matricole che potessero in qualche modo rispecchiare le quote etniche del melting pot americano, restituendo un’immagine fedele della nazione. Anche per questa ragione i detrattori del principio vengono accusati di doppiopesismo, considerando che la razza non è l’unico fattore che spesso viene indicato nelle domande di ammissione: censo, partecipazione alla buona società, ascendenze, credo religioso vengono ugualmente valutati come fattori di ammissione.
La decisione della Corte e le opinioni dissenzienti
Nella sentenza i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson hanno dissentito dalla maggioranza conservatrice. Per questi tre componenti la Corte starebbe commettendo un errore gravissimo, imponendo una sorta di “daltonismo” di Stato che rende indifferente il mondo dell’istruzione rispetto al background culturale e di vita degli studenti, sovvertendo garanzie e protezioni costituzionali che si sono sedimentate con forza e con tanta difficoltà. Soprattutto in un Paese che negli anni Sessanta viveva ancora il segregazionismo e che combatteva a fatica le leggi di Jim Crow, soprattutto negli Stati più conservatori del sud.
Il presidente della corte, John Roberts, ha contribuito alla formazione della maggioranza con il suo parere, andando a creare una frattura temporale rispetto al percorso che la celebre sentenza Brown vs. Board of Education del 1954 aveva tracciato: abolendo la segregazione scolastica si faceva della scuola e del mondo dei college americani il luogo più sacro d’America ove, per la prima volta cadeva il segregazionismo e la sua foglia di fico del “separate but equal”. Roberts ha ritenuto, infatti, che questo metodo violi la Equal Protection Clause, non offrendo obiettivi “misurabili” per giustificare l’uso dell'appartenenza razziale avallando, inoltre, stereotipi culturali.
Va sottolineato, inoltre, che sebbene la questione venga agitata nei tribunali da decenni, aveva subito un trattamento abbastanza razionale da parte della Corte: si era ribadito più volte, infatti, che il principio dell’affirmative action fosse incostituzionale, ma non il suo spirito: contribuendo a dare un’immagine autentica della nazione, infatti, poteva infatti essere tollerata ed utilizzata con raziocinio. Oggi, invece, la tabula rasa.
Quanto basta a destare le ire dell’Università della Nord Carolina le cui pratiche di ammissione sono state demolite dalla sentenza: dall’ufficio del rettore fanno sapere che il prestigioso ateneo si impegnerà a rispettare la legge ma che l’università si impegnerà a “mettere insieme studenti di talento con prospettive ed esperienze di vita diverse”.
Cosa accade adesso
Cosa accadrà, dunque, adesso? La razza diventerà una sorta di lettera scarlatta impronunciabile? Affatto. Qui però il confine tra la affirmative action e il nuovo corso della Corte Suprema diventerà talmente sottile da generare caos: se gli atenei, infatti, non potranno più optare per delle “quote etniche” per tutelare gli studenti e meglio rappresentare il mosaico americano, gli studenti potranno comunque esplicitamente fare riferimento sia alla propria appartenenza razziale che al proprio colore della pelle se questo è stato un elemento dirimente nella loro giovane vita. L'attributo razziale potrà dunque far parte della narrazione di sé all’interno della domanda di ammissione e dunque essere un elemento che le commissioni di valutazione, a loro discrezione, riterranno dirimente o meno nella valutazione positiva di questo o quello studente.
All’interno della maggioranza che ha contribuito alla decisione, anche il giudice nero Clarence Thomas che si è espresso in termini insolitamente personali, affermando che questa diffusa pratica degli atenei sarebbe una sorta di “preferenze senza timone” che hanno il solo scopo di concedere agli atenei il mix etnico che si sono prefissati.
Una battaglia che ha finito per divenire politica, facendo perdere qualsiasi principio di equilibrio nell’applicazione della norma, e che ora assume i toni della faglia tra Gop e democratici, sulla pelle delle matricole di domani: non a caso l’ex presidente Donald Trump ha definito la giornata di oggi “un grande giorno per l’America”. A fargli da controcanto i coniugi Obama, che hanno attinto alla loro storia personale per contestare la decisione dei giudici.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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