Quando la Scandinavian Star prende per la prima volta il largo, è gennaio del 1971 e il suo nome è ancora Massalia. Verrà in seguito chiamata Stena Baltica e poi Island Fiesta fino al 1983 quando alla nave viene data la denominazione con cui passerà alla storia. È il 7 aprile del 1990, e il traghetto Scandinavian Star sta attraversando la rotta Oslo-Frederikshavn per conto della compagnia di navigazione norvegese Da-No Linjen. A bordo sono presenti 395 passeggeri e 97 membri dell'equipaggio. All’improvviso però qualcosa va storto e il viaggio diventa una discesa verso gli inferi marini.
Quel 7 aprile diversi fattori vengono sottovalutati. Tra questi ci sono le porte tagliafuoco, che dovrebbero fornire una protezione antincendio per una decina di minuti durante un incendio, ma in quel momento risultano difettose; il personale di bordo inoltre ha avuto una formazione di sole due settimane ed è impreparato a gestire un ipotetico incidente; infine sin dall’inizio si assiste a un’incomprensione dopo l’altra perché il personale portoghese non parla l’inglese, né il norvegese e neanche il danese.
L’elemento che sarà decisivo per la tragedia è però quello che viene totalmente ignorato: la sua ristrutturazione e il riutilizzo. La Scandinavian Star infatti nel corso del tempo non ha cambiato solo nome ma anche funzione, fino a diventare una nave trasporto per passeggeri e mezzi.
L’incendio
Sono le 2 di mattina e gran parte dei passeggeri sta dormendo. La nave è in procinto di attraversare lo Skagerrak, lo stretto che separa la Danimarca dalla Norvegia e dalla Svezia. All’improvviso un rumore lontano viene percepito dai pochi che sono ancora svegli. Passano alcuni minuti e le fiamme cominciano a provenire dal basso; nel giro di poco tempo un incendio sta distruggendo ogni cosa. Il rogo si propaga dal ponte 3 al ponte 4 fermandosi al ponte 5.
A peggiorare la situazione è la struttura del traghetto. Infatti le pareti interne sono realizzate con una lamina in acciaio e pannelli in amianto ma il rivestimento è fatto con un laminato in resina altamente infiammabile. Vengono quindi sprigionati gas tossici in tutta la struttura e a peggiorare la situazione è la disposizione delle stanze, che diventano delle vere e proprie gabbie di fuoco, in cui le scale e i soffitti si trasformano in camini che propagano l’incendio.
I primi tentativi di salvataggio
A questo punto il capitano, Hugo Larsen, venuto a conoscenza della gravità della situazione, si precipita a chiudere le porte antincendio della paratia sul ponte 3, ma invano. Un mancato aggiornamento delle porte e un problema tecnico, ne impediscono la totale chiusura automatica.
Prontamente, Larsen si accinge a seguire un altro piano: spegnere i ventilatori che normalmente smaltiscono i fumi di scarico. In quel frangente infatti gli strumenti stanno aspirando l’aria attraverso una porta antincendio non fissata correttamente, provocando dunque una rapida progressione del fumo. Lo spegnimento della ventilazione però dà la possibilità al fumo di entrare rapidamente all’interno delle cabine dei passeggeri che lo inalano assieme ai gas tossici. La nave diventa una bara galleggiante.
Coloro che si stanno rendendo conto di ciò che sta accadendo corrono a rifugiarsi dentro gli armadi e nei bagni, gli altri rimangono sui letti dove moriranno. C’è poi chi tenta disperatamente la fuga tra i corridoi gridando e chiedendo un aiuto sordo tra il personale impreparato. La nave è un labirinto da incubo, all’interno del quale vi sono diversi corridoi ma senza uscita. Infatti, a causa delle varie ristrutturazioni, soprattutto l’ultima effettuata in tempi record, sono state lasciate intatte parti della vecchia struttura.
L’abbandono della Scandinavian Star
La situazione è ormai fuori controllo. Il capitano si vede costretto a inviare il Mayday e a ordinare di attivare gli allarmi per l’abbandono della nave. Passano altri minuti e, credendo che tutti i passeggeri siano già sulle scialuppe, lui e il personale di bordo scendono dalla nave. In realtà moltissimi sono ancora bloccati dentro ai corridoi, negli armadi, nei bagni.
Mentre dall’esterno i vigili del fuoco cercano di domare per dieci ore di seguito l’incendio, la nave viene rimorchiata nel porto di Lysekil, in Svezia. Nel frattempo si mettono a disposizione varie motovedette che vanno alla ricerca degli ultimi superstiti rimasti miracolosamente vivi tra le acque gelide. Le prime scene che passano alla tv sono strazianti: uomini, donne, bambini e anziani avvolti nelle coperte con il viso annerito, altri trasportati sulle barelle con ustioni in tutto il corpo. C’è chi urla che lì dentro si trova ancora un proprio caro, chi tiene gli occhi bassi per lo sconforto.
L’epilogo del disastro
Le operazioni atte al sopralluogo si rivelano lente e difficoltose a causa della struttura ormai deformata dall’incendio. Inoltre, i resti trovati sono carbonizzati, quindi si attivano più di cento specialisti che lavorano notte e giorno per l’identificazione. Molti corpi sembrano appartenere a dei bambini anche se nella lista dei passeggeri non risultano persone di età inferiore ai 7 anni. I cadaveri rinvenuti sono 158, ma due settimane dopo le vittime diventano 159 a causa di un passeggero che muore per le ferite riportate. Di queste vittime 136 hanno nazionalità norvegese.
Le indagini
Le prime analisi conducono a un incendio doloso, escludendo così sin dal principio la pista dell’incidente. Il primo a essere accusato è Erik Mørk Andersen un camionista, morto sulla nave. Su di lui, pesavano già tre condanne per il reato di piromania. Nel 2009 però la perizia dimostra come in realtà gli incendi sarebbero stati appiccati in tre posti differenti e per cui sarebbero state necessarie più persone.
A confermare tale ipotesi ci sono le testimonianze dei passeggeri che parlano di più boati nel giro di pochi minuti: “Abbiamo sentito un boato, ci siamo svegliati di soprassalto. Stavamo dormendo in cabina e abbiamo pensato a una collisione. Urlavamo tutti – ha ricordato un sopravvissuto – Poi, dall' altoparlante c' è stato ordinato di indossare i giubbotti salvagente. Il panico è aumentato. Saranno passati pochi minuti ed ecco un secondo boato. Più forte. Il fumo intanto era arrivato fin dentro le cabine e la nave aveva fermato i motori. Sopra, sul ponte, c’era molta agitazione. Ancora pochi minuti ed ecco il terzo schianto”.
Nel 2013 un rapporto nega la responsabilità del camionista e addita nove membri dell’equipaggio come presunti colpevoli dei vari incendi, ma anche del sabotaggio degli strumenti di salvataggio. Il movente sarebbe stato quello della frode assicurativa dal momento che, poco prima della tragedia, la nave era stata assicurata per il doppio del suo valore. Tale accusa però rimane solo un’ipotesi per mancanza di prove.
Nel 2014 il camionista viene discolpato definitivamente e tra il 2015 e il 2016 si ritorna a indagare seguendo la pista del sabotaggio. Un investigatore danese in pensione infatti, facendo un sopralluogo, si è accorto che alcuni materassi sembravano come impregnati di carburante, probabilmente per agevolare l’incendio. Inoltre uno studio sulle porte antincendio ha riportato che qualcuno le aveva forzate per impedirne la chiusura.
Anni dopo, nel 2020, alcuni canali danesi, norvegesi e svedese hanno riacceso i dibattiti e le polemiche sulla tragedia mandando in onda un documentario, basato sul libro del giornalista Lars Halskov dal titolo Branden: - Gåden om Scandinavian Star. Il cortometraggio infatti è una denuncia su tutto quello che è successo prima e dopo l’incendio, sull’assenza di misure di sicurezza, sulle indagini, sul mancato rispetto delle vittime.
Il 9 maggio 2020, il documentario ha portato la maggioranza del parlamento danese a votare per avviare un’udienza governativa e fare luce sull’attuale mancanza di colpevoli. La richiesta però non è mai stata presa in considerazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.