Ci siamo scordati di abbattere le Vele e di fare davvero rinascere Scampia

La corsa nella notte tra flash e di rete social per la tragedia già dimenticata

Ci siamo scordati di abbattere le Vele e di fare davvero rinascere Scampia

La notifica su WhatsApp interrompe la visione di una noiosissima trasmissione sportiva. Prendo lo smartphone e guardo l'anteprima del messaggio sul display. Il mittente salvato come ALFONSINO MAMMA: «Professò, state dormendo?».

«Che va trovando da me la signora Castaldo alle dieci di sera» sbuffo. La scuola è finita da un mese e mezzo e il figlio era uno dei primi della classe. Un ragazzino difficile affezionatosi in modo un po' morboso.

Buona sera, signora. È successo qualcosa?

L'app mi comunica che la mittente sta registrando un audio. Sospiro già immaginando il vocale di Alfonsino con saluti, abbracci e baci.

«Scusate che vi disturbo a quest'ora, professò» la voce della donna riempie il salotto e si mescola al chiacchiericcio televisivo. Intanto ecco un altro vocale.

«È successa una cosa brutta assai. È crollata la Vela Celeste». Uno, forse due secondi di pausa. Il tempo di metabolizzare la tragedia, di ricacciare in gola le lacrime, poi riprende. «Non vi volevo mettere paura ma alcuni compagni di classe di Alfonsino abitano là».

A guardarmi dall'esterno si penserebbe a un'opera d'arte moderna: la statua di un uomo con lo smartphone accanto all'orecchio e il sangue gelatosi nell'istante in cui la parola «crollata» si è diffusa attraverso l'apparecchio.

Indosso le Converse senza i calzini: non ho tempo di cercarne un paio puliti, afferro casco e chiavi della Vespa e sono già nella tromba delle scale.

Nella testa risuona la voce della signora Castaldo mentre un'area del cervello continua a chiedersi «Ma che stai facendo? Torna a casa a guardare la tv. Tra poco parleranno del calciomercato e ti addormenterai guardando i social come tuo solito».

«I social» affermo. E ho la sensazione di dire una parolaccia, una bestemmia che fa girare tutti. Immagino già decine di persone con in mano quei maledetti telefoni, impegnate a riprendere la tragedia. Gli altri perderanno tempo a gridare, a graffiarsi il volto con le dita e a nominare uno alla volta tutti i santi del calendario.

Un teatrino dentro al quale sono cresciuto e che da Portici, dove sono nato, al quartiere Piscinola cambia solo interpreti e decibel. L'ammuina per la quale siamo popolari in tutto il mondo qui trova il suo naturale sfogo.

Pochi minuti ed ecco che il traffico si fa più intenso. Una colonna di auto che suona il clacson più per sentirsi partecipe della tragedia. Mollo la Vespa a due passi da un cassonetto e proseguo a piedi, infilandomi in un budello sempre più stringente.

La sagoma della Vela Celeste mi si staglia davanti e mi fa tornare bambino: metà anni '80, la corsa in macchina per festeggiare il primo scudetto. In una Renault omologata per quattro eravamo almeno il doppio. Io ero il nennillo di otto anni con la maglia di Maradona di un paio di taglie più grande seduto in braccio allo zio brillo già alla fine del primo tempo. Passando davanti a quel casermone domandai: «E quello cos'è? Il Vesuvio di pietra?».

Risate, suonate di clacson, divertita indifferenza.

Mi chiedo pure adesso cosa sia quel caseggiato che mi vedo davanti: un monumento alla Camorra? Il segno tangibile del fallimento delle varie amministrazioni?

«Scampia sta tornando a nascere» mi sono sentito dire tre anni e mezzo prima, il giorno in cui per la prima volta ho messo piede in una scuola media e l'ho fatto con il timore del forestiero. Timore che dovessi camminare con la scorta, che dovessi parcheggiare la Vespa un paio di chilometri prima per paura che la rubassero. Timore che qualche genitore avesse visto nel figlio un potenziale Gabriele D'Annunzio e aggredisse il professore che avevo osato mettergli quattro.

Ho visto parchi, strutture all'avanguardia, persone per bene sedute sulle panchine dei parchi pubblici mentre i bambini giocano a pallone con la maglia pezzotta di Kvara e Di Lorenzo. Ma ho visto pure le Vele e mi sono sempre chiesto: «Ma che aspettano a buttarle giù? Prima o poi si spezzeranno come i wafer».

Vorrei non aver fatto un pensiero così macabro e, soprattutto, vorrei non aver portato sfortuna. Il viavai di ambulanze e auto delle forze dell'ordine lasciano capire che la tragedia è appena cominciata. I pompieri strillano ordini, tirano fuori scale mobili e funi e continuano a ripetere: «Jatevenne. State lontani che è pericoloso».

Aggiungono pure qualche imprecazione, così da rendere più efficace il messaggio. Mi guardo intorno e cerco disperatamente il volto dei miei allievi.

«Fai che stanno in vacanza» mormoro mentre, con gli scatti del collo cerco i volti di Salvatore, Morena e di qualche altro allievo.

Una signora, seduta su una sdraio, si lascia andare alla disperazione. Il pianto è scomposto, così come le parole che vengono fuori. Ripete un nome che fatico a comprendere: Alberto o forse Roberto. Una rarità, comunque, in mezzo a una moltitudine di Antonio, Giuseppe e Ciro ai quali si aggiungono quelli esotici per i nati dopo il 2000.

Dei miei allievi ancora nessuna traccia. Individuarli è difficilissimo: saremo oltre duemila qui mezzo, tra sfollati, benedetti dal padreterno e i depravati da social network che mandano avanti da oltre un'ora la diretta.

«Sperammo che nun se consuma 'a batteria» si lamenta un ragazzo, le braccia coperte di tatuaggi e una barba che arriva fino allo sterno.

Mi verrebbe di strappargli di mano quel maledetto aggeggio e chiedergli un po' di rispetto per i morti.

Morti che verranno dimenticati, così come ci si era scordati di abbattere le Vele e far davvero tornare a nascere Scampia.

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