L'antimafia dei preti. Corpo e sangue contro i malacarne

Qualche tempo fa un prete disse che non serve essere eroi, anzi al giorno d'oggi c'è bisogno del contrario

L'antimafia dei preti. Corpo e sangue contro i malacarne
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Qualche tempo fa un prete disse che non serve essere eroi, anzi al giorno d'oggi c'è bisogno del contrario. Dobbiamo ritrovare il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte e denunciare: sono parole di don Peppino Diana, che la camorra avrebbe ammazzato nel 94, dentro una chiesa di Casal di Principe.

Trent'anni dopo la sceneggiatura è simile, forse meno scenografica e meno fatale, ma ugualmente indecente. Parlo di quanto accaduto a Pannaconi, in provincia di Vibo Valentia. Protagonista è un giovane sacerdote, don Felice Palamara, in passato già vittima di intimidazioni per il suo impegno anti-ndrangheta: quindi nulla di nuovo, lo confesso con amarezza, leggiamo da un copione noto a tutti e dove l'ultima farsa perché di farsa, drammatica, si tratta è andata in scena qualche giorno fa: don Felice stava celebrando la Messa, quando si è accorto che qualcosa non andava nelle ampolle dell'acqua e del vino, dove è stata poi rinvenuta della candeggina. L'orrore tascabile in pratica. In quelle due boccette c'era brutalità distillata, c'era l'essenza dell'idiozia insieme all'ordine di uccidere un uomo: così surreale da sembrare un romanzo, meglio ancora una pièce da teatro dell'orrore o dell'assurdo?, col mondo preda dell'insensatezza e il protagonista che non trova più logica. Perché la mafia è questo: spudorata assenza di logica, precisa adorazione del male che fa sballare uno dopo l'altro gli schemi. Su un palco simile tutto diventa allora aberrazione, tutto s'illumina di menzogna, tutto è maschera e tutto è mascherato. Come in questo caso, in quest'ennesima deriva da tragedia, finora solo sfiorata: da una parte qualcuno si mostra a volto scoperto, continua a benedire e a invocare misericordia, a pregare denunciando e denunciare pregando, qualcuno paga per la verità che dice, come ogni crocifisso che si rispetti; dall'altra parte c'è invece una nube, fatta di tante facce imprecise, una specie di coro greco dove gli attori non hanno nome, sono solo sagome scure e non fanno che tendere agguati: ma di nascosto, con la vigliaccheria dell'ombra, sgattaiolando perfino in una sagrestia.

Sembra di vederli, affiliati anche a quella religione che amano scimmiottare, quel Cristianesimo prêt-a-porter con cui pasticciano puntualmente, puntualmente insudiciandolo. Mafiosi che fanno i cattolici dunque, che tappezzano i bunker di immagini sacre, che meditano omicidi mentre partecipano a cerimonie, chiedono sacramenti, studiano riti e simbologie e portano in processione statue dei Santi patroni. Sono anche questo, mentre don Felice è uno che prosegue il proprio ministero, continuando a celebrare l'Eucarestia e a credere nel corpo e sangue di Cristo, ossia in una carne che insegna il sacrificio, ma anche il coraggio e il perdono, soprattutto il perdono.

Dalle sue parole capiamo che è questo a renderlo (davvero) vivo: dovremmo dirlo ai commedianti che gli remano contro, a questo gruppo più o meno folto di marionette che recita parti che sappiamo a memoria, che non comprende che volere morto qualcuno significa essere già morti in partenza. Sperare che se ne rendano conto è avanguardia pura? Almeno per questa storia ho, abbiamo il diritto d'immaginare un finale diverso. Di più, ne abbiamo il dovere.

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