Due bimbe torturate, tre condanne. L'inchiesta, le Iene, i dubbi: "E se fossero innocenti?"

Il massacro di Ponticelli resta ancora un mistero. Francesca Di Stefano e Giulio Golia provano a far luce su un giallo che compie 40 anni

Due bimbe torturate, tre condanne. L'inchiesta, le Iene, i dubbi: "E se fossero innocenti?"

Nel 1983 Napoli fu scossa dal brutale omicidio di due bambine. Per questo reato hanno scontato la pena tre giovanissimi dell’epoca, oggi uomini maturi che si proclamano innocenti. La loro storia è stata raccolta da “Le Iene” ed è poi confluita in un volume-inchiesta ricchissimo di dettagli, “Mostri di Ponticelli o vittime di un errore giudiziario” edito da Piemme. Gli autori Francesca Di Stefano e Giulio Golia, rispettivamente autrice e conduttore della trasmissione, hanno incontrato i tre uomini e numerosi altri protagonisti del caso. Il libro è infatti dedicato “A tutte le numerose vittime di questa vicenda”. Perché in forme e tempi diversi il dolore non è stato “limitato” all’uccisione delle due bimbe.

“Ricordavo molto bene questa storia. Sono cresciuto a Napoli, non lontano da Ponticelli in una famiglia con altri tre fratelli e la mamma non ci faceva uscire di casa per paura del mostro in giro”, racconta a Il Giornale Golia, il quale ricorda come lui e Di Stefano abbiano iniziato a interessarsi dell’argomento dopo un dialogo con Stefania Ascari della Commissione Antimafia.

Il brutale duplice omicidio di Ponticelli

È il 2 luglio 1983, siamo a Ponticelli, quartiere di Napoli con molti edifici di edilizia popolare. Non ci si immagini però un luogo di degrado: le palazzine Incis al centro dell’omicidio ospitano dipendenti pubblici e le loro famiglie. D’estate bambini e bambine, ragazzi e ragazze di tutte le età, anche poco più che maggiorenni affollano gli spiazzi antistanti i condomini, scambiando storie, giochi, divertimenti semplici com’era negli anni ’80.

Ma nel tardo pomeriggio Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, rispettivamente 7 e 10 anni, scompaiono. Con loro doveva esserci anche Silvana Sasso, un’altra bimba “salvata” dalla nonna, una donna estremamente prudente che non le permise di andare con le amiche. A Silvana, Barbara e Nunzia dicono di dover incontrare un ragazzo più grande, Gino, che loro chiamano “Tarzan tutte lentiggini”, un’espressione che hanno mutuato dal cartone animato Candy Candy.

Intorno alle 19.30 un’altra amica, Antonella Mastrillo, vede le due bimbe allontanarsi su una Fiat 500 blu con un fanalino rotto e il cartello “vendesi”. I loro corpi saranno ritrovati semicarbonizzati il giorno dopo nel territorio di Volla.

Sul collo di Barbara, nonostante le condizioni del corpo, fuoriesce ancora sangue, mentre Nunzia presenta tagli sull’addome e sulla pancia. Entrambe hanno ricevuto molti colpi superficiali da arma da taglio, sono state colpite rispettivamente 13 e 19 volte, su una delle due si staglia anche l’ombra dell’abuso sessuale.

In cerca di un colpevole

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo all'arresto nel 1983

Erano altri tempi, c’erano altri modi e altre tecniche. Se si analizzano le indagini del massacro di Ponticelli probabilmente si noteranno enormi differenze con ciò che accade oggi, in primis per la mancanza di esame del Dna, che in molti Paesi tra cui l’Italia, non era ancora una prassi all’epoca. Vengono fatte poche foto sulla scena del crimine e i reperti - uno straccio imbevuto, i sandaletti delle bimbe, un barattolo, un sacco - sembrano quasi non avere un senso logico. Chi è stato condannato in tre gradi di giudizio per questo crimine non lo è stato in base a prove sostanziali.

“Da una parte gli avvocati non sono stati abbastanza incisivi - spiega Di Stefano - dall’altra si era creato un flusso di informazioni, anche a livello mediatico, che sembravano spingere verso la colpevolezza. Una volta che c’era la confessione de relato di Carmine Mastrillo e quella, a suo dire forzata, del fratello di Giuseppe Salvatore La Rocca, tutto il resto passava in secondo piano. Si è spinto molto su quella che hanno chiamato ‘prova del gruppo sanguigno’, un fazzoletto con una striatura di sangue, che corrispondeva al gruppo sanguigno di una delle bambine ma era anche quello di Giuseppe La Rocca. È sembrato schiacciante, eppure c’era un discreto ragionevole dubbio, ma non è stato voluto fare un approfondimento ulteriore di indagine per dimostrarlo. Inoltre le prove materiali sono state distrutte dopo il primo grado, in maniera abbastanza anomala tra l’altro”.

Ma non sono state solo queste le mancanze dell’indagine. Anzi delle indagini, perché carabinieri e polizia ne condussero due parallele, senza comunicare tra loro. “Nella fretta e nella volontà di chiudere con quei colpevoli forse non si è voluto approfondire con le altre piste che avevano molti margini. Per esempio l’interrogatorio di Corrado Enrico è stato fatto 10 giorni dopo l’arresto dei ragazzi, che già erano stati presentati come colpevoli. Non dico che ci sia stato dolo, ma non si è voluto riaprire il caso quando era stato chiuso”, prosegue Di Stefano.

I sospetti si concentrarono immediatamente su un ambulante, poi scagionato: si trattava di Corrado Enrico, possessore di una Fiat 500 blu: era stato accusato in passato di molestie nei confronti di minorenni e non solo. Ma l’ambulante, che sostava spesso sotto un ponte nei pressi del luogo del ritrovamento dei corpi, non venne preso in considerazione.

Anche i tre uomini poi condannati in tre gradi di giudizio per il duplice omicidio - Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo, tutti di San Giorgio a Cremano - avevano un alibi ed erano tutti e tre in compagnia. Inoltre non possedevano una Fiat 500 blu, ma la vettura di uno di loro era una 500 bianca. All’epoca frequentavano le palazzine Incis per via di amici e fidanzate che vivevano lì. Furono loro a essere incriminati successivamente e, appunto, condannati. Ma sono molte le cose che non tornano, benché i tre uomini, facendosi forza a vicenda, hanno scontato l’intera pena nel carcere di Spoleto, venendo scarcerati nel 2010.

Tre uomini reclamano giustizia

“Ci mettiamo a studiare e ci accorgiamo che più entriamo nel merito, più restiamo senza parole. Abbiamo deciso di proporre un intervento e iniziare a parlare con quelli che io chiamo sempre ex ragazzi, ahimè, perché si sono persi una vita”, racconta Golia degli esordi dell’indagine che ha portato al libro. Naturale sollevare dubbi: d'altra parte sono gli anni, i luoghi e i personaggi del caso Tortora.

Non c’è probabilmente nulla al mondo di più infamante che essere creduti responsabili per l’omicidio e la tortura di due bambine. Per questa ragione Imperante, La Rocca e Schiavo hanno chiesto aiuto a “Le Iene” perché si indagasse ancora. E, a ben guardare, nell’indagine svolta dai carabinieri molte cose non tornerebbero. Ma all’epoca, come detto, c’erano grandi differenze con l’oggi, a partire dal fatto che fosse in vigore il Codice Rocco. Uno dei tanti risvolti che indignano della vicenda riguarda inoltre il fatto che Barbara e Nunzia, due bambine, furono ritratte in tribunale come lolite, non come le vittime di un presunto maniaco.

“Per mesi - dice Golia - è stato cercato un soggetto, ma alla fine ne sono stati trovati tre, ma nessuno corrisponde alla descrizione della bambina sopravvissuta, anche attraverso riconoscimento all’americana. Avevano alibi e anche l’auto non corrispondeva”. Inoltre per settimane, nell’estate 1983 mentre si avvicendavano 4 sostituti procuratori, dall’Incis furono chiamati a testimoniare minori e non alla caserma Pastrengo, pare senza le dovute garanzie, ovvero i minorenni senza tutori e i maggiorenni senza avvocato. Si parla perfino di presunte, torture, minacce, botte: all’interno della caserma c’era al tempo un pentito di camorra, Mario Incarnato, che uno dei tre condannati dice di aver incontrato senza sapere chi fosse e di essere stato preso a pugni per essere indotto alla confessione.

E in tre giorni, dall’1 al 3 settembre 1983, per gli ex ragazzi precipita tutto. “Il giudice Arcibaldo Miller rientra dalle vacanze e dà un aut aut ai carabinieri: bisogna chiudere l’indagine velocemente - illustra Golia - In tre giorni i ragazzi sono passati da testimoni a indagati ad assassini. Sempre in quei tre giorni Carmine Mastrillo incontra Incarnato. Leggendo gli atti e ascoltando le persone sembra quasi una sceneggiatura, il che fa pensare che all’epoca questo sarebbe potuto accadere a chiunque”.

Alla fine quindi Imperante, La Rocca e Schiavo furono inchiodati da un dito puntato prima da Vincenzo Esposito - che non aveva un alibi, il fratello organizzava corse clandestine di cavalli nei pressi del luogo di ritrovamento e possedeva una Fiat 500 blu, tuttavia risultò estraneo alla vicenda - e dalla testimonianza di Carmine Mastrillo, fratello di Antonella che affermò come i tre coetanei gli avrebbero parlato dell’omicidio.

Mastrillo ritrattò, salvo poi tornare a puntare il dito in aula, dicendo di "volersi pulire la coscienza". Molti, che avrebbero voluto testimoniare l’alibi per i tre giovani, non poterono farlo: o non venivano presi in considerazione oppure venivano incarcerati per falsa testimonianza. Tra loro soprattutto non li riconobbe Silvana Sasso, l’amica di Barbara e Nunzia che avrebbe dovuto essere con loro quella sera. Inoltre non fu mai fatto un sopralluogo cronometrato. Sentiti dagli autori del libro, i carabinieri negano che ci siano state le violenze testimoniate da più parti sugli interrogati, ma uno di loro ammette che potrebbero aver firmato verbali di interrogatori in cui non erano effettivamente presenti.

Di Stefano e Golia hanno incontrato molte persone durante la loro indagine e non sono mancati i momenti difficili: “Il momento più duro è leggere negli occhi di una persona che ti sta mentendo, e non si capisce per quale motivo, e non vuole affrontare un discorso, cercando di evitarlo in tutti i modi. Quello è stato un momento molto duro per me. Un momento altrettanto duro è stato parlare con la vedova di Corrado Enrico. Io spero che si comprenda l’imbarazzo tangibile della situazione: arrivare a casa di una persona che ha perso il marito e portarla a un ragionamento in cui lei dice: ‘Mi state dicendo che mio marito era un mostro?’, bisogna essere il meno aggressivi possibile e ricostruire tutti i dettagli. L’abbiamo oscurata, preservandola. È una di quelle situazioni in cui una persona ha vissuto con un’altra e forse sta scoprendo a causa tua che potrebbe essere il famoso mostro. Un’altra sensazione molto particolare è stata incontrare Vincenzo Esposito”, spiega Golia.

Il ruolo della camorra

Nel caso del massacro di Ponticelli entra lateralmente la camorra in modi diversi. Per esempio si ipotizza che la condanna dei tre giovani sia una conseguenza indiretta dell’urgenza della camorra di riprendere le attività criminali a Ponticelli: le piazze di spaccio erano ferme con le indagini in corso e quindi è verosimile, ma non certo, che sia stato trovato un capro espiatorio per mettere fine alle ricerche del responsabile.

Quello che è certo è che i camorristi in carcere si sincerarono che Imperante, La Rocca e Schiavo non venissero mai toccati: la camorra sapeva che erano innocenti, altrimenti per loro non ci sarebbe stato scampo. Un “codice d’onore” della camorra dell’epoca emetteva sentenze di morte per chi toccava i bambini.

I papabili profili (che non possono essere il killer)

Per la camorra il responsabile sarebbe stato Luigi Anzovino, fratello di Ernesto che aveva incolpato con gli inquirenti Vincenzo Esposito, uno degli innocenti indagati e scagionati. Anzovino è noto come “quello che si è buttato di sotto”: i carabinieri lo cercarono in casa per altri fatti criminali e lui si calò dalla finestra. Molto probabilmente il suo non fu un suicidio ma un tragico incidente. Difficilmente però Anzovino era il colpevole: la sorella ha sostenuto che Luigi non possedeva un’auto e inoltre se l'avesse compiuto il delitto si sarebbe presentato a casa sporco di sangue.

Stesso discorso, ovvero non era colpevole, Corrado Enrico: sebbene il suo potenziale profilo criminologico avrebbe potuto indicarlo come sospetto, sebbene avesse una vettura in vendita come quella ricercata e l’abbia data in rottamazione nonostante la volesse acquistare il cognato, e sebbene avesse detto di aver visto le foto dei corpi che non erano mai state pubblicate da nessun giornale, non ci sono prove ed Enrico ha un alibi.

C’è però un uomo, indicato da una spettatrice de “Le Iene”, il cui riconoscimento potrebbe dare un riscontro importante, ora che le indagini sono state riaperte. La donna, di nome Eva, afferma di essere stata caricata in macchina - una Fiat 500 blu - da un uomo che l’avrebbe molestata, alcuni mesi prima degli omicidi. Se non avesse avuto la prontezza di sfuggirgli e chiedere aiuto a una donna di passaggio, forse ora si parlerebbe di tre vittime. “Enrico e Anzovino potevano essere indagati di più. Anche se, secondo me, non sono stati loro”, dice Golia. L’uomo indicato da Eva infatti è ancora in vita, un segreto che “Le Iene” custodiscono, rivelato solo alla procura.

“Sicuramente la riapertura di un’indagine di omicidio è un dato positivo - conclude Di Stefano - qualche flebile speranza ci potrebbe essere.

Se il colpevole è ancora vivo. Non sappiamo cosa può accadere, anche perché non abbiamo gli strumenti della magistratura. Servirebbe una revisione del processo e chissà che questa nuova indagine non possa portare a nuove prove che la permettano”.

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