
La vicenda di Garlasco ci regala una buona e una cattiva notizia. La buona notizia è che la procura di sua sponte ha deciso di (ri)aprire il processo ad Alberto Stasi indagando su Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara Poggi, come uno dei possibili responsabili dell’omicidio della ragazza. Sempio è indagato in concorso con altri ignoti e con Alberto Stasi, come se questo nuovo filone investigativo non fosse in aperto contrasto con la sentenza passata in giudicato che ha condannato l’ex fidanzato, come se i due potrebbero aver agito in complicità. Un’ipotesi evidentemente inverosimile ma che viene utilizzata come escamotage per riaprire l’indagine senza compromettere al momento il giudicato della Cassazione.
Se è lodevole la volontà da parte della Procura di Pavia di fare luce su questo omicidio, dobbiamo nuovamente interrogarci sul fatto che negli ultimi vent’anni le quattro, cinque vicende giudiziarie che hanno appassionato milioni di italiani sono sempre state costellate da una serie di buchi neri nelle indagini e nelle ricostruzioni che hanno favorito, legittimamente, suggestioni giornalistiche e ipotesi alternative rispetto alle responsabilità dei soggetti individuati, processati e condannati dalla magistratura.
Per chi crede all’estraneità di Stasi è una buona notizia, come per molti cronisti che hanno messo in dubbio le sentenze sull’omicidio Poggi. Certo, ci sono molti altri giornalisti che preferiscono «nascondersi» dietro le sentenze di colpevolezza - sulle quali magari si sono spesi in termini reputazionali, mettendo in gioco la loro professione e le loro carriere - e accusano altri giornalisti di essere «propalatori di bufale» e «terrapiattisti dell’informazione». Ma la presunzione d’innocenza vale evidentemente per Alberto Stasi, vale per il muratore di Mapello Massimo Bossetti, per Rudy Guede condannato per l’omicidio di Meredith Kercher ma «in concorso», con chi non si è mai capito. E vale per Olindo Romano e Rosa Bazzi, sul cui processo di revisione la Cassazione dovrebbe pronunciarsi il prossimo 25 marzo.
Come sappiamo, in questo caso specifico, c'è una richiesta di revisione avanzata dai legali della coppia guidati da Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, dal loro tutore Diego Soddu e dall’ex sostituto procuratore generale Cuno Tarfusser, che per essersi convinto scrutando le carte di una verità processuale diversa si è beccato dal Csm una censura (confermata da una pilatesca Cassazione perché il ricorso è «inammissibile», visto che l’ex giudice della Corte penale internazionale è in pensione...) perché non aveva chiesto il permesso del suo capo, come se il potere «diffuso» del magistrato dipendesse da un regolamento interno e non dalla Costituzione che garantisce il diritto alla revisione. Tarfusser dice che «rifarebbe tutto» perché ha agito secondo coscienza, lo stesso immaginiamo avranno fatto i magistrati di Pavia che così facendo rimettono in discussione il lavoro dei loro colleghi.
Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: se c’era il Dna di un’altra persona sotto le unghie di Chiara, perché quella pista è stata accantonata allora e ripescata oggi? Qualcuno ha sbagliato a valutare quella prova, evidentemente, sostenendo che non ci sarebbe stato un movente credibile. E i giudici che in tre gradi di giudizio hanno confermato la condanna di Stasi non si sono neanche preoccupati del fatto che quel Dna potesse rappresentare un ragionevole dubbio rispetto all’innocenza di Stasi, in cella da dieci anni e in condizioni psicofisiche devastate da una detenzione che lui - e molti altri - ritengono ingiusta.
Chi ha giudicato colpevole un innocente pagherà mai? Quanti soldi vale un’ingiusta detenzione e la gogna mediatica? I giornalisti che hanno sottoscritto la condanna di una persona estranea al reato che avrebbe commesso «perché le sentenze non si discutono» avranno il coraggio di fare mea culpa e magari cambiare mestiere, anziché insegnare agli altri come si fa? Purtroppo no, e questa è la brutta, bruttissima notizia.
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