Non si può morire sul lavoro a 80 anni

La dipartita di quest'uomo, mio coetaneo, come tu stesso sottolinei, avvenuta a Terlizzi, in provincia di Bari, mi tocca

Non si può morire sul lavoro a 80 anni
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Gentile Direttore Feltri,
lei ha sempre una parola a favore dei lavoratori, che troppo spesso muoiono mentre compiono il loro dovere. Un suo più o meno coetaneo è deceduto martedì mentre svolgeva le sue mansioni all'interno di un cantiere. Era un operaio.
Come commenta questo fatto?
Giulio Russo

Caro Giulio,
raramente i fatti di cronaca mi commuovono. Ho la pellaccia del cronista indurito, a cui è cresciuto il pelo sullo stomaco, che ha masticato per decenni e decenni notizie di sangue di ogni tipo, tanto che ad una certa età, in un determinato momento, quasi più niente ne condiziona l'umore e lo spirito. Insomma ci si abitua, per sopravvivere. Eppure la dipartita di quest'uomo, mio coetaneo, come tu stesso sottolinei, avvenuta a Terlizzi, in provincia di Bari, mi tocca, non soltanto perché sono particolarmente sensibile nei confronti delle cause dei lavoratori che oggi sono defraudati e poco tutelati, pur essendo il lavoro valore su cui si fonda la nostra Repubblica, e non mi stancherò mai di ricordarlo. Ciò che colpisce e amareggia di questa vicenda non è solamente l'assenza di adeguate misure di sicurezza, le quali avrebbero impedito che questo quasi ottantenne crepasse cadendo da un'altezza di dieci metri, all'interno di un vano ascensore di un palazzo in corso di ristrutturazione, volo che avrebbe distrutto le ossa di chiunque, anche di un giovanotto, figuriamoci di un anziano. Ma lascia costernati altresì proprio l'elemento anagrafico, ossia l'età dell'operaio nonché capocantiere, il cui nome è Cesare Dibitetto. Un cantiere è uno dei luoghi più a rischio e il mestiere di operaio edile è uno dei più usuranti. Queste due circostanze avrebbero dovuto costituire validissimi deterrenti rispetto alla presenza di Cesare in quel posto, ossia nel posto dove egli ha perduto la vita. Invece l'uomo era un operaio esperto, il quale, appartenendo alla mia stessa generazione che è stata dedita alla fatica, addestrata al lavoro fin dalla tenera età, ha voluto rendersi utile e produttivo scegliendo di continuare a sgobbare per riuscire a integrare una pensione evidentemente insoddisfacente. Ritengo che la sua figura fosse anche necessaria per l'esperienza e le competenze maturate, del resto è noto che mancano gli operai specializzati, i giovani si formano sempre meno, prediligendo attività più comode o addirittura la nullafacenza. Spesso ho udito accuse vergognose nei confronti degli anziani, i quali sono tacciati di rubare il lavoro ai giovani. In verità, non rubano nulla, semmai mettono a disposizione il loro sapere, la loro presenza è valore aggiunto e non qualcosa che impoverisce e depreda. E questo caso è emblematico: Cesare era lì poiché serviva quella figura specifica. Quindi alla veneranda età di ottant'anni, quando, secondo l'immaginario collettivo, uomini e donne se ne stanno sulla poltrona, inchiodati davanti alla tv, fottendosi pensioni che però si sono ampiamente guadagnati e preventivamente pagati, Dibitetto, all'alba, era già in cantiere, a respirare il cemento, a sollevare pesi, a sporgersi pericolosamente dai ponteggi. La nostra cultura è sempre più ageista, ovvero imbevuta di pregiudizio e avversione nei confronti degli individui anziani, e questo è sintomo di involuzione e stupidità. Invecchiamo sempre di più, di anno in anno aumenta il numero dei centenari, e odiamo sempre di più i vecchi. Beh, odiamo noi stessi, insomma, o quello che a breve, se avremo fortuna, diventeremo.

Mi strazia pensare a Cesare, al momento in cui, precipitando, ha intuito che la sua esistenza sarebbe finita lì, proprio nel giorno del suo compleanno e in uno dei luoghi dove è stato più presente nel corso della vita, cioè dentro un cantiere. Sapeva che non avrebbe avuto scampo, che quella caduta sarebbe stata fatale, che non avrebbe più rivisto il figlio e tutti i suoi cari, che non avrebbe spento la candelina sulla torta. Ecco, riflettere sul quell'istante, quello della consapevolezza piena e lucida prima di sbattere contro il suolo, mi annienta.

All'improvviso Cesare è un amico, un compagno di scuola, un fratello, un coetaneo che sicuramente aveva tanto in comune con me, pur essendo nati e cresciuti da una parte all'altra della penisola e avendo fatto percorsi diversi. All'improvviso Cesare sono io stesso, io che ho questo bisogno matto di lavorare, di continuare a farlo, che ogni giorno scrivo e vado in redazione, perché ho bisogno di respirare il lavoro, l'ossigeno, la vita.

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