"Io come Tortora, sono vittima di un processo mediatico". Alberto Stasi, condannato a 16 anni, per l'omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi commesso nel 2007, in una lettera-memoriale scritta dal carcere di Bollate si definisce "un prigioniero".
"Mi sembra che in casi come il mio - scrive Stasi nelle sei pagine protocolo inviate al Quotidiano Nazionale lo scorso 14 dicembre e pubblicata ieri- si voglia a tutti i costi consegnare un colpevole all'opinione pubblica senza però preoccuparsi se colui che viene indicato come tale sia effettivamente il colpevole e non una vittima di errate decisioni e aspettative". La sentenza, secondo Stasi, era già stata scritta dai giornali e dai media citando il commento del procuratore generale in Cassazione: "I fatti e le carte hanno sempre provato la mia innocenza e le nuove perizie fatte l'anno scorso avevano rafforzato questa verità - prosegue -. Questo era il processo; io ho sempre saputo di essere innocente. Non nascondo di avere temuto l'assurdo epilogo che oggi sto vivendo, visto l'incomprensibile iter processuale che ho dovuto vivere". E poi il paragone che farà discutere: "In situazioni come queste, le persone vengono esibite come trofei alzati al cielo dopo una vittoria. È sempre stato così e sempre sarà, da Sacco e Vanzetti a Tortora". "Non siamo in uno Stato di diritto.
Questi otto anni - conclude - mi hanno lasciato moltissime cose che mi porterò sempre dentro: la perdita di Chiara, con cui avrei voluto una vita insieme, la morte di mio padre, che è sempre stato al mio fianco, le tante difficoltà e ingiustizie, non ultimo l' allontanamento da mia mamma, che ora si ritrova da sola. Però in questi giorni tra tutti i miei pensieri ne prevale uno: un forte dubbio di non vivere in uno Stato di diritto".
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