Il bivio per alcuni versi è semplice anche se può cambiare la Storia del Paese. Il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, grazie alla maggiore affinità politica che l'attuale governo ha con la nuova amministrazione di Washington, magari può farci aspirare a diventare il 51esimo Stato o il 52esimo se Donald Trump riuscirà a conquistare il Canada: potremmo trasformarci nelle Hawaii del Mediterraneo e fare la felicità di Elon Musk e dei suoi sogni su un ritorno dell'impero romano. Scherzo. È evidente però che accettare l'idea di una relazione a due con gli Stati Uniti aumenterà la diffidenza degli altri Paesi Ue verso di noi e la distanza con loro: saremmo la testa di ponte degli interessi Usa nell'Unione. È fatale perché - detto o non detto - quello è il disegno e il calcolo del nuovo inquilino della Casa Bianca.
L'altra strada è quella di utilizzare l'entante cordiale con Trump per diventare l'ambasciatore dell'Europa, il ponte (per usare un'espressione inflazionata) dell'Unione con gli Stati Uniti. Anzi, in quest'ottica l'Italia potrebbe diventare il volano di un'accelerazione del processo di integrazione nella convinzione che ormai per contare a livello globale, se vuoi interfacciarti non solo con gli Stati Uniti, ma anche con la Russia, con la Cina e con l'India devi essere grande. E l'Europa è un gigante dai piedi di argilla perché non ha consapevolezza del proprio potenziale. Basta pensare che l'Unione sulla carta conta 200 milioni di abitanti in più degli Stati Uniti e più del doppio di quelli della Russia. Il che significa - a proposito di dazi - un mercato più grande. Siamo indietro nella tecnologia ma abbiamo le risorse per rimetterci in gara. E un sistema integrato di difesa europeo - specie se riaprissimo le porte all'Inghilterra - potrebbe essere temibile e rendere l'Unione protagonista a livello internazionale. Si tratta di una scelta sì, ma rischia di essere obbligata se non vogliamo imboccare il sentiero di un inesorabile declino: i banchieri a Davos scommettono che di questo passo la gerarchia delle monete vedrà in cima il dollaro, le criptovalute, lo Yuan e in fondo l'euro.
Insomma, ci sarebbe bisogno di un «sovranismo europeo», di un Europe First, che abbia la capacità di dialogare e collaborare alla pari con i teorici dell'America First. È l'unico modo per rapportarsi a Trump senza farsi male, l'unica ricetta per evitare il tramonto. Naturalmente dovrebbe essere un'altra Europa, non quella dei burocrati ma quella di un'Unione delle Nazioni come gli Usa sono una federazione di Stati. Un comune sentire che allarghi il concetto di Patria all'Europa e che non abbia bisogno della garanzia dei veti per bloccare le decisioni. Discorsi che potrebbero coniugarsi con le idee di un centrodestra che guardi al domani. Che non si rifugi in un passato superato e non si rassegni ad un futuro angusto. Berlusconi, il visionario, ci credeva. Gli altri non so.
Un «sovranismo europeo» che contagi anche la sinistra che si illude di poter esorcizzare Trump con il solito processo di «mostrificazione». Si inalbera per i saluti romani di Musk, senza interrogarsi sui perché da New York a Los Angeles, da Miami a Seattle hanno scelto The Donald, sulle ragioni dello strabismo di un Partito democratico che non si è accorto che navigava su una rotta che era l'opposto di quella scelta dalla maggioranza degli americani. In fondo Trump è null'altro che la risultante di questi errori. È la terza legge di Newton: se si esagera nei programmi (cultura woke, gender, immigrazione) ci sarà una forza uguale e contraria devastante.
In questa logica per non ridurre tutto ad una diatriba ideologica su ciò che è stato, l'idea di un «sovranismo europeo» può rilanciare al futuro una sfida programmatica, politica, culturale con i nostri alleati - perché non potrebbe essere altrimenti - d'Oltreoceano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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