Per me, è innocente. Nonostante i ghirigori giuridichesi, alla fine lo confessano anche i giudici. Ammettono che il cardinale Becciu non ha rubato un centesimo, per poi giungere alla conclusione, con un salto logico ed etimologico da saltimbanchi del diritto, che è colpevole di peculato, una parola che viene da pecunia, cioè denaro. Nessuno, tra i mille giuristi e vaticanisti, ecclesiastici o no, ha mosso obiezioni. Lo ritengo un'indecenza. Mi spiego.
Nei giorni scorsi sono state pubblicate le motivazioni della sentenza di condanna a cinque anni e mezzo contro il cardinale Angelo Becciu per peculato e truffa. È stato il caso giudiziario di maggior rilievo mondiale del millennio. Il braccio destro del Papa, il 24 settembre del 2020, era stato quietamente convocato a un'udienza di routine con il Numero 1, e si trovò davanti un Papa furibondo che a freddo lo accusò di avergli rubato i soldi delle elemosine per arricchire i fratelli sardi, con la scusa di aiutare la Caritas diocesana di Ozieri.
Francesco sventolò quel giorno sotto il naso del principe della Chiesa una copia-pilota, cioè non ancora uscita in edicola, dell'Espresso con questo titolo su Becciu: «Soldi dei poveri al fratello e offshore». Una tesi impugnata come verità rivelata da Bergoglio quasi fosse un'aggiunta tardiva al Vangelo, ma pur sempre infallibile. Il porporato fu trasformato in statua di sale dalla veemenza del Dolce Cristo in Terra (copyright di Caterina da Siena), e seduta stante si ritrovò condannato alla «crocifissione cautelare» ed esposto pendente davanti all'universo nei panni disgraziati del «cattivo ladrone».
Il giudizio del Tribunale vaticano fu pronunciato il 16 dicembre 2023, il 30 ottobre sono state diffuse circa 800 pagine con le motivazioni. Vi si dice: non ha rubato, ma è colpevole lo stesso di peculato. I giudici ammettono che non esiste alcun bottino: non hanno trovato un euro nelle tasche di porpora della piccola eminenza di Pattada, e neppure se ne sono appropriati i suoi parenti. No, ma è reo comunque. E per che cosa? Per aver dato il via, quando monsignor Angelo era «sostituto segretario di Stato», a un «azzardo», un affare i cui esiti sono stati rovinosi per le casse della Chiesa, con una perdita finale valutata dal Tribunale in duecento milioni. Il palazzo di Londra non andava acquistato, permettendo a manager di arricchirsi, con truffa ed estorsione, col portafoglio della Santa Sede.
Un attimo: Becciu decise tutto autorizzato dai superiori, e non a voce, ma per iscritto, e non è affatto detto che se il successore avesse adempiute certe buone pratiche, interrotte con la promozione cardinalizia del prelato sardo, l'affare sarebbe stato vantaggiosissimo. Sul tema è ancora in corso, e sta giungendo a sentenza, un processo parallelo a Londra, dove di affari se ne intendono di più.
Non sto abbandonandomi all'emozione. E mi ri-spiego. Il ricordo dei miei articoli non è di precetto neppure per i miei 25 amati lettori, per cui reputo necessario segnalare che ho dedicato sin dal 2020 a questa vicenda un'inchiesta che condussi su Libero, firmando e coordinando decine di articoli. A muovermi era stato l'istinto affinato dalla mia esperienza al processo di Enzo Tortora. Se le televisioni e i media della galassia - atei, laici, vaticani, comunisti, bigotti - sono unanimi nello stracciare le vesti di dosso a un uomo senza che costui abbia potuto pronunciare una sola sillaba a sua difesa, gatta ci cova. Mi colpì la totale mancanza di misericordia, l'assenza di dubbi, la non menzione della presunzione non dico di innocenza, ma almeno di non colpevolezza, del loro fratello in Cristo che accompagnò sui quotidiani editi dal Papa e dai vescovi italiani la notizia dell'estromissione del cardinale dal Conclave, lasciandogli addosso, quasi a maggior scherno, la veste rossa e il titolo di eminenza, come fece Erode con Gesù Cristo, per schernirlo meglio.
Studiai personalmente la pratica e misi al lavoro una piccola squadra. Appurammo qui mi spiccio nel sintetizzare almeno trecento pagine di Libero che la copia dell'Espresso a disposizione del Papa era stata posata sulla sua scrivania prima ancora che il cartaceo arrivasse fisicamente alla redazione dell'Espresso; che la notizia delle dimissioni imposte dal Papa a Becciu era già stata scritta nel sito internet del settimanale (in una pagina tenuta pronta per essere divulgata) ben 7 ore e 48 minuti prima che il Papa gli revocasse le prerogative di cardinale.
L'autore dei servizi, Massimiliano Coccia, un reincarnato profeta Elia, scopriamo che un po' svela, un po' nasconde. Avvalora la propria inchiesta citando «le carte che abbiamo visionato». E qui il primo elemento oggettivo che mi ha fatto pensare a un piano ordito alle spalle non solo di Becciu, per farlo fuori dal Conclave, ma del Papa stesso: chi ha messo a disposizione documenti coperti da segreto istruttorio da dentro il Vaticano, e perché? Su questi reati nei Sacri palazzi si è severi: per Vatileaks si procedette contro il povero maggiordomo Paolo Gabriele (è defunto) e in seguito contro Francesca Chaouqui e un monsignore. In questo caso si lascia correre, ed anzi si è premiato il direttore dell'Espresso Marco Damilano, che si è vantato del merito di aver lasciato mano libera a Coccia, eleggendolo relatore davanti al Papa del Sinodo di Roma giusto un paio di settimane fa.
Cosa nasconde il cronista amato da Damilano e Roberto Saviano? Nel novembre del 2020 apprendo da un redattore di Radio Radicale, Enrico Rufi, che Coccia, fingendosi sacerdote, si era spacciato per segretario privato del Papa con il nome di don Andrea Andreani, giocando con il dolore di un Rufi che aveva perso la figlia proprio durante la Giornata della gioventù in Polonia, e desiderava udienza da Francesco. «Sciacallaggio», mi disse Rufi allora. La denuncia, presentata presso il promotore di Giustizia (pm) del Vaticano dall'avvocato Laura Sgrò per conto di Rufi, giace lì da anni. Inevasa. Chiesa delle nebbie?
In realtà è tutto l'impianto processuale e il sistema giudiziario a essere per forza di cose una macchina della tortura. È venuto alla luce che, nel corso del processo, sono state cambiate le regole della procedura penale, su richiesta dei pm, per quattro volte. È bastata la firma del Papa. E, senza che nessuno fosse informato, gli inquirenti hanno avuto il permesso di adottare procedimenti di intercettazione e di procedere ad arresti senza passare da giudici terzi. Leggi valevoli solo per questo processo.
Certo, il Papa nella Città del Vaticano in materia penale agisce come legislatore dello Stato, e fin qui sono caratteristiche specifiche di una monarchia assoluta. Ma il «giusto processo» rivendicato dai giudici - per essere tale esige almeno che ogni legge sia resa pubblica e valga per tutti. Un'altra perla di plastica? Si sostiene in sentenza che gli atti di amministrazione di beni ecclesiastici che presentino qualche rischio costituiscono una violazione del canone 1284 (quello del «buon padre di famiglia»): insomma, sono peculato. Peccato che ogni investimento (e anche mettere i soldi sotto il materasso) includa un rischio. In questa logica, dovrebbero essere immediatamente inquisiti per peculato tutti gli economi delle curie e delle congregazioni religiose.
C'è una parte della sentenza che mi ha fatto venire il prurito nervoso. È quando, a proposito dei finanziamenti attribuiti a Cecilia Marogna in quanto accreditata dai servizi segreti italiani (stiamo freschi, povero Becciu) per liberare una suora e usati anche per gingilli di lusso, i giudici si buttano sul gossip, sostenendo ci sia troppa «familiarità» e, dunque, complicità tra la signora e il cardinale. Un bel modo, il più classico, per sfregiare il cardinale. Il quale ha sempre negato e fornito testimoni sulla falsità delle illazioni. Niente da fare: se Marogna fosse stata un uomo, magari un fraticello, ho il sospetto, vista la «troppa frociaggine» (Francesco dixit) dell'ambiente, si sarebbe glissato.
P.S. Mi ha molto colpito l'editoriale di Andrea Tornielli direttore editoriale e di fatto ministro dell'informazione - pubblicato immediatamente sul sito Vatican News e sull'Osservatore Romano, entrambi di proprietà pontificia.
L'ottimo Tornielli - tant'è che lo assunsi al Giornale quand'era disoccupato - sostiene che il «processo è stato giusto», «i diritti della difesa» pienamente salvaguardati. Non dice mai che la sentenza è di primo grado, e che pertanto Becciu è «presunto innocente». Brutto affare per Becciu: la condanna è marchiata in modo indelebile.
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