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Il campo largo si schianta. Conte e Schlein ostaggio di una formula perdente

Essere o non essere. Alla frase di Amleto bisognerebbe aggiungere la parola "bipolaristi" per comprendere il dilemma del centro-sinistra

Il campo largo si schianta. Conte e Schlein ostaggio di una formula perdente
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Essere o non essere. Alla frase di Amleto bisognerebbe aggiungere la parola «bipolaristi» per comprendere il dilemma del centro-sinistra. Dilemma si fa per dire, perché piddini, grillini, sinistri, centristi che tutti insieme sono stati sconfitti in Abruzzo, non hanno nei fatti altre strade oltre al «campo largo» per essere competitivi alle urne con l'attuale maggioranza di governo. Per cui sono prigionieri di questo schema, ma anche del suo paradosso: senza il «campo largo» non hanno nessuna speranza di imporsi; ma se interpretano male il bipolarismo rischiano di allearsi solo per perdere.

E il primo dato che esce fuori dalla disfatta abruzzese è che l'asse pd-5stelle non basta per vincere: può spuntarla in Sardegna per 800 voti, che è come beccare un terno al lotto, ma i due partiti a livello nazionale coprono un bacino elettorale che non va oltre quel 35-36% che è sempre stato quello della sinistra dai tempi di Enrico Berlinguer. Per vincere, per usare l'adagio di uno dei teorici del campo largo, Goffredo Bettini, c'è bisogno di una terza gamba.

È il primo elemento di cui la Schlein e Conte debbono convincersi se vogliono accettare una sfida bipolare. Romano Prodi lo predica da tempo. Teorizzava Maurice Duverger, un politologo francese, che in un sistema elettorale proporzionale i partiti di centro sono quelli che decidono chi governa dopo le elezioni; in un sistema bipolare sono gli elettori di centro che decidono chi vince prima delle elezioni. Ora la nostra legge elettorale è un ibrido, non è del tutto maggioritaria, ma la disposizione del centro-destra sul campo obbliga gli altri, se vogliono avere qualche chance, ad adottare lo schema bipolare e a parlare anche a quegli elettori decisivi che sono al confine tra i due schieramenti. Perché, per parafrasare Cuccia, come le azioni nella finanza i voti a volte non si contano ma si pesano. E un voto sottratto all'avversario vale due volte. Solo che il profilo del «campo largo» soffre di una grossa lacuna. Nelle elezioni abruzzesi si è visto quanto sia preziosa Forza Italia nel centro-destra. Il fatto clamoroso, il dato più importante di queste elezioni, è proprio quel 14% degli azzurri nel «dopo Berlusconi» senza il quale Marsilio non avrebbe vinto e che ha risposto ad una domanda che c'è nell'elettorato moderato. Un partito di un certo peso - perché in politica i volumi contano - che come Forza Italia presenti un'offerta a quel segmento elettorale, il «campo largo» non lo ha. C'è un arcipelago di piccoli «centri» che non esercitano, così divisi, un grande appeal, una forte attrazione sul piano dei consensi. «È la vera questione - osserva un veterano del Pd come Piero Fassino -: se accetti lo schema bipolare devi avere un soggetto nello schieramento che parli a quell'elettorato. Altrimenti rischiamo di essere prigionieri di uno schema perdente. La verità è che a noi manca qualcuno che ricopra il ruolo di Forza Italia».

In fondo è la Storia che lo insegna. Le due esperienze più simili al «campo largo» sono state nel tempo l'Ulivo e l'Unione, cioè le due volte in cui Prodi riuscì a battere Berlusconi: ebbene, in entrambi i casi quello schieramento aveva un partito speculare a Forza Italia, cioè la Margherita di Francesco Rutelli. Per ora il «campo largo» ne è privo. E la questione non è di poco conto, perché né il Pd, né i grillini possono svolgere quella funzione. Anche perché solo quelle aree centriste possono introdurre argomenti programmatici nello schieramento di centro-sinistra (vedi il fisco e alcune posizioni di politica estera) indigesti agli altri due soggetti: certo, poi uno schieramento media, arriva ad un compromesso (il centro-destra docet), ma senza la presenza di sensibilità su quei temi rischia di non parlare ad un bel pezzo di Paese e, appunto, di rivelarsi minoritario. Ma c'è la possibilità di mettere in piedi una terza gamba del «campo largo»? Se si pensa alla diaspora del terzo polo è complicato se non impossibile. Uno dei leader di «+Europa», altro centrino, Benedetto Della Vedova, traccia un quadro disarmante: «Renzi è più furbo, ci starebbe, ma per quanto riguarda il senso politico di Calenda la seconda parola è superflua».

Il secondo problema riguarda la premiership. Ci vorrebbe una figura di confine, un Prodi 27 anni dopo. Non è un segreto che Conte aspiri a quel ruolo, specie se l'eventuale avvento di Donald Trump gli ritagliasse l'immagine di interlocutore privilegiato della Casa Bianca. Mentre nel Pd c'è chi continua ad accarezzare l'ipotesi dell'ex-premier Paolo Gentiloni. Questioni che non risolvi senza tanto pragmatismo e disponibilità.

E siamo al punto di partenza: il centrosinistra ha come strategia solo il «campo largo»; ma non è, almeno per ora, nelle condizioni di renderlo competitivo. Più che interpretarlo, ne è prigioniero. Il tipico cane che si morde la coda.

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