Caro de Benoist il liberalismo è un'altra cosa

Caro de Benoist il liberalismo è un'altra cosa

Il Novecento è stato l'epoca dei socialismi di ogni colore e del declino della tradizione liberale. L'idea che gli uomini abbiano diritti inviolabili è stata rigettata da quanti hanno celebrato la nazione, la razza, la solidarietà, la comunità, lo Stato. Nel suo ultimo libro (Critica del liberalismo, edito da Arianna e in vendita sul libero mercato a 23,50 euro) lo studioso francese Alain de Benoist prende in esame la questione del totalitarismo, ma lo fa provando a rovesciare la prospettiva. A dispetto di quanto avvenne ad Auschwitz e Kolyma, egli usa il termine «totalitarismo» non già per individuare i carnefici, ma le vittime. Sul banco degli imputati finisce così il liberalismo, che avrebbe la colpa di rivendicare i diritti di proprietà contro gli espropri di Stato, l'autonomia negoziale contro le intimidazioni dei legislatori. E che per questo sarebbe, appunto, totalitario.

Proveniente dalla cultura post-fascista, Benoist da tempo è stato sdoganato a sinistra. Per Massimo Cacciari è «un intellettuale di vastissima cultura, che da anni studia i fenomeni della globalizzazione da un punto di vista critico», mentre il marxista e sovranista Diego Fusaro vede in lui l'antesignano del superamento di destra e sinistra. Simili apprezzamenti non sorprendono, dato che da decenni Benoist diffonde tesi collettiviste e molto gradite a sinistra. Quello che sorprende, però, è come nel libro vi sia una lunga serie di equivoci e incomprensioni.

Innanzi tutto, il volume usa il termine «liberalismo» sovrapponendo l'uso europeo (francese, ma anche italiano) e quello americano. Il problema è che da noi sono liberali quanti vogliono meno Stato, mentre negli Usa quelli che ne vogliono di più. Tale confusione è all'origine, nel testo, di una serie di nonsense.

Per giunta, spesso la conoscenza del tema risulta superficiale, come attestano errori anche grossolani. Ad esempio, Benoist evoca più volte la romanziera di origine russa Ayn Rand, ma la colloca tra gli anarco-capitalisti, che propongono la fine del monopolio statale e la nascita di agenzie protettive scelte liberamente, anche se una tra le battaglie più importante che ella combatté fu proprio contro chi come Murray Rothbard andava affermando che ogni politica estera fosse illegittima e che lo Stato andasse abolito.

Ad aggravare la situazione è il fatto che le fonti sono prevalentemente in lingua francese. E se si può scrivere un volume sul liberalismo consultando quasi esclusivamente la letteratura in inglese, non lo si può fare se gli autori di riferimento sono Michéa, Gauchet, Lepage, Manent, Freitag, Dumont, Delsol e via dicendo. Una tara caratteristica di larga parte della cultura francese qui si rivela particolarmente di ostacolo allo sviluppo dell'analisi.

Per il resto, Benoist ripropone vecchie tesi, anche se in questo caso molti argomenti vengono da un socialista reazionario francese, Jean-Claude Michéa, che vede nella teoria liberale ciò che avrebbe corrotto il socialismo di un tempo: conservatore, rurale, comunitario, basato su principi certi e immutabili. Il liberalismo sarebbero le cattive multinazionali, mentre la comunità sarebbe il bel tempo antico che fu.

Quella che Benoist non vede è la dimensione etica del liberalismo: l'idea cioè che non si possa aggredire il prossimo, che all'altro si debba un rispetto assoluto, che egli abbia il diritto di ricercare il bene e la felicità come vuole, se questo non si traduce in un'aggressione ai danni di altri.

D'altra parte, per Benoist come per Jean-Jacques Rousseau, l'individuo è il male. L'uomo non ha un'esistenza propria e la colpa fondamentale del cristianesimo consisterebbe nell'avere creato questa relazione tra il singolo e Dio (la vita interiore) che ha aperto la strada alle libertà dei moderni. All'individuo bisogna allora opporre l'esaltazione della politica e delle masse, anche se ciò sopprime la più piccole delle minoranze: l'individuo.

In questo quadro, non vi è diritto di resistenza di fronte al potere, non vi è proprietà che vada riconosciuta, non vi è possibilità di disporre di sé e della propria vita. Ogni tentativo dei singoli di essere liberi è ricondotto a un (preteso) errore antropologico, dato che non si dovrebbe guardare agli uomini come a individui capaci di convivere e interagire, poiché essi esisterebbero solo quali componenti di comunità: cellule di entità organiche.

Benoist non crede che ogni individuo sia stato posto dinanzi alla possibilità di agire bene e male, sia un soggetto dotato da Dio della facoltà di agire, sia al centro di un dramma - l'esistenza - che possiamo condurre in una direzione o in un'altra: «Ti ho posto dinanzi al bene e al male: là dove vuoi stenderai la tua mano» (Siracide). Nelle logiche l'uomo non dispone di sé. Non a caso, per il fondatore della Nouvelle Droite le nazioni non sono aggregati di uomini legati a una storia articolata e che ognuno può leggere a proprio modo: esse sono le vere realtà umane, dinanzi alle quali i singoli non hanno diritti.

Quando afferma che la società non è un mercato, l'autore ha ragione, dal momento che raramente siamo liberi di decidere cosa fare, in cosa credere, come educare i nostri figli. Il collettivismo fascistoide dominante ci impedisce di esistere: è vero. Per Benoist, però, è bene che sia così.

E quanto vi è di peggio in questa esaltazione della politica è proprio la volontà di difendere le catene. Questo aiuta comunque a capire perché, pur muovendo da una collocazione ideologica «impossibile», oggi Benoist riscuota la stima e il rispetto di tanti intellettuali.

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