Caso «Unico» a Milano: la nostalgia ad alta quota

Il ristorante sul tetto del Portello ha cambiato chef: è Felice Lo Basso, stella Michelin in Val Gardena che mescola sapori di Puglia e ricordi di famiglia

Solitamente gli anglosassoni, quando vogliono esaltare al massimo l'esperienza vissuta in un ristorante usano la parola «orgasmic»: rende l'idea.

Anche se può suonare leggermente fuori luogo ad alcuni, resta però l'immagine di una persona che vive con tutta se stessa la serata, i piatti, i profumi. Difatti ci si sente così, quando si assaggia la cucina di Felice Lo Basso, chef che si è appena insediato all'Unico dopo sette anni in Val Gardena, all'Alpen Royal, dove ha conquistano la sua prima stella Michelin, nel 2011. «L'ho saputo da un amico: alle 8.30 del mattino, mi mandò un messaggio alquanto strano, qualcosa del tipo come hai dormito?» racconta. «Poi iniziai a capire, fu un'emozione straordinaria, soprattutto comunicarlo alla brigata».

È un vero fuoriclasse, non lo scopriamo certo noi. Milano però è una cassa di risonanza diversa rispetto alla vacanziera Val Gardena; qui, l'impatto con il cliente, con il pubblico, è più immediato, diretto, severo: sono aspetti che Felice, pugliese di Molfetta, apprezza.

Se gli chiedi come si potrebbe caratterizzare la sua cucina risponde subito, senza esitazione alcuna: «Intuitiva. Passionale. Armonica. Nostalgica, perché in ogni mio piatto c'è un ricordo legato ai miei due figli e a mia moglie». Se invece tocca a noi, provare a raccontare i suoi piatti, l'elenco degli aggettivi diventa robusto: cotture, equilibri e consistenze perfette, com'è perfettamente definibile ogni ingrediente, tecniche padroneggiate in maniera eccelsa.

La cucina di Felice pulsa omaggi alla sua terra, spesso tocca corde artistiche, i profumi sono nitidi, l'entusiasmo traspare da ogni piatto, la mano è decisa, la personalità dello chef anche. Lo Basso ti accompagna in un viaggio fantastico, fatto di contaminazioni e creatività allo stato puro, il piacere della vita attraverso il cibo.

Non gli piacciono le cotture lente, predilige una cucina espressa, il menù cambia ogni mese (in arrivo il riso con zucca, maialino iberico e caffè), a parte alcuni piatti storici che hanno fatto la fortuna dei ristoranti dove ha lavorato: il risotto con formaggio di capra, scampi e carote lo propone da tre anni e, non si accettano scommesse, a Milano diventerà un cult, un must, un piatto da leggenda (il maitre Gianluca Lo Russo, pugliese pure lui, assieme a Felice da cinque anni, suggerisce il Bruno Payard rosé come abbinamento).

Idem il cervo arrostito nel burro chiarificato, tecnica antica e presentazione moderna, la patata liquida con miele e tartufo, la tartar waygu con biscottini ai pinoli (evapora letteralmente in bocca).

Parlava prima della sua brigata: se l'è portata quasi in toto da Val Gardena, undici persone che l'hanno seguito a Milano così come il sommelier. «L'unione fa la forza, lo chef che vuole fare il protagonista solitario dura poco. Nel nostro mestiere ci vuole umiltà, pazienza, spirito di sacrificio, non c'è spazio per i divi. Difatti i tanti programmi tv di cucina, se da una parte hanno dato una visibilità impensabile fino a qualche tempo addietro, da un'altra creano false aspettative ai nuovi allievi delle scuole alberghiere, si fa loro credere che la fama sia tutto e che debba arrivare subito». Nel poco tempo libero ama andare a mangiare altrove, magari nei ristoranti degli chef amici: Aimo e Nadia, Andrea Aprea, Enrico Bartolini, Ilario Vinciguerra, Luigi Taglienti, Andrea Alfieri.

Una menzione speciale anche per Vincenzo Cammerucci («È lui ad avermi cresciuto e formato», dice).

Un solo neo finora, ed è impossibile capacitarsene: in molti chiamano per prenotare senza poi presentarsi. Non sanno cosa si perdono.

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