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"Vi racconto la storia di Denise e perché è difficile parlarne"

Il regista della docu-serie "Denise" Vittorio Moroni racconta cosa abbia significato trattare una vicenda di cronaca nera mai chiusa

"Vi racconto la storia di Denise e perché è difficile parlarne"

Quello di Denise Pipitone è un caso che non è ancora chiuso: non c’è una verità che dica cos’è accaduto a quella bambina di Mazara del Vallo scomparsa, rapita il 1 settembre 2004 e mai ritrovata. Però ci sono tante voci, che rappresentano una sorta di mosaico. E queste voci sono confluite in una docu-serie di 4 puntate: “Denise”, in streaming su Discovery+ e in diretta il sabato alle 21.25 su Nove (sabato 19 marzo la seconda puntata).

“Non è mai chiaro dove la storia andrà a finire. Ogni giorno accade qualcosa che riorienta il percorso narrativo”, dice a IlGiornale.it, ricordando le riprese, il regista Vittorio Moroni che ha anche co-sceneggiato con Simona Dolce la docu-serie prodotta da Palomar per Discovery.

Moroni, perché girare una docuserie su Denise a oltre 17 anni dalla scomparsa?

“Perché c’è ancora lo spazio per un racconto diverso su questa vicenda, a condizione di poter entrare in questa storia non solo raccontando i fatti ma anche l’impatto che questi fatti hanno avuto sui protagonisti della vicenda”.

Perché, secondo lei, gli italiani hanno così a cuore Denise e i suoi cari, in particolare mamma Piera Maggio?

“Ci sono probabilmente molte ragioni. Una di queste è il fatto che questa bambina, dopo 17 anni, non si sa se sia viva o se sia morta. Ci sono persone che la stanno cercando e che hanno avuto bisogno di cercare una verità che non si è trovata. È un mistero molto forte e forse tutti noi abbiamo bisogno di poter sperare, identificarci in queste persone che non cessano di poter sperare in qualcosa anche dopo un tempo così lungo”.

Vittorio Moroni

In che senso?

“In questi giorni vediamo quanto da un lato ci sia bisogno di speranza, mi riferisco alla pace che l’Europa sembra improvvisamente, di nuovo aver perduto, e di come la speranza di questa pace sia difficilissima. Eppure tutti noi abbiamo un bisogno formidabile di cercarla. Forse Piera Maggio, i genitori di Denise, sono un esempio di persone che, contro tutto e tutti, non hanno mai smesso di coltivare questa speranza”.

Quali sono le principali difficoltà nello sceneggiare e girare un’opera che racconta di un caso di cronaca che non si è mai chiuso?

“È stata una difficoltà enorme, per varie ragioni e su vari livelli. Una difficoltà è stata quella di essere in uno scenario incandescente. Quando ho iniziato a girare la serie era un set a cielo aperto, in cui tutte le trasmissioni televisive ne stavano braccando in qualche modo i protagonisti, cercando di ottenere interviste. Quindi con le persone con le quali cercavo di fare un lavoro un po’ diverso, quello di raccontare tutta intera questa storia, con conversazioni molto lunghe in cui non ci sarebbe stata né una voce fuori campo e nemmeno la presenza delle mie domande nel montaggio, un lavoro di dissodamento paziente della memoria. Era molto difficile da spiegare, di fronte a questa esasperazione, su questo terreno incandescente”.

E poi?

“Dall’altra parte c’era una vicenda che tornava a essere all’attenzione dei media dal punto di vista investigativo, per cui era difficile non solo avere l’accesso alle persone ma anche quale forma dare alla storia. Non è mai chiaro dove la storia andrà a finire. Ogni giorno accade qualcosa che riorienta il percorso narrativo. Dovevamo essere attenti e flessibili alle cose che accadevano”.

Le primissime ricerche di Denise Pipitone
Le primissime ricerche di Denise Pipitone

Quali sono i protagonisti che l’hanno colpita di più?

“Sono grato a tutti coloro che hanno accettato di far parte del racconto. Ne abbiamo avuto alcuni esclusivi. Credo che Kevin Pipitone non abbia mai preso la parola in questi anni. Per me è stato importante vedere come anche per lui era arrivato il momento di contribuire a questa memoria famigliare. Spero di aver raccolto tutte le voci, anche quando erano in conflitto tra di loro, di aver rispettato il loro punto di vista e cercato di trasformarlo in narrazione”.

E quindi è stato svolto un lavoro molto complesso.

“Per ognuna delle voci ci sono state decine di ore di memoria: assumersi la responsabilità di trasformare la memoria individuale in una narrazione non è mai facile, però devo dire che i miei collaboratori, la mia co-sceneggiatrice Simona Dolce e anche i montatori sono stati efficacissimi. Abbiamo creato un team che continuamente ha cercato di vigilare sull’equilibrio di ciò che stavamo raccontando. Non volevo giudicare, schierarmi, prendere parte a questa storia, ma raccogliere tutte le voci e lasciare allo spettatore il compito di tirare le fila, di fare una sintesi”.

Il caso di Denise è fortemente mediatico. È possibile che questo abbia potuto influenzare l’opinione pubblica?

“Questo è un grande tema del nostro tempo, uno dei grandi conflitti che stanno dentro a questa storia. Il conflitto è tra il diritto, sacrosanto, costituzionale che hanno i giornalisti di potersi occupare delle vicende giudiziarie e criticare perfino quando ritengono sia necessario, e dall’altra parte l’altrettanto costituzionale sacrosanto diritto che hanno le persone investigate di poter essere interpellate nei luoghi propri della giustizia. Sono due principi importanti della democrazia. Il confine tra questi due principi è labile e ogni volta va ridisegnato. Il rischio è che ci siano processi paralleli e che i processi mediatici possano interferire nei processi della giustizia. Abbiamo provato anche a porre questo problema, astenendoci come sempre dal dare un giudizio”.

Piera Maggio e Giacomo Frazzitta
Piera Maggio e Giacomo Frazzitta nel 2013, alla fine del processo per il sequestro di Denise

Che idea si è fatto lei del caso?

“Credo di aver avuto a disposizione un anno di lavoro circa. E quattro ore e quaranta minuti di racconto, che non sono pochissime. Ho fatto tutto per tenermi su questa posizione, di ospitalità delle voci e al tempo stesso di astensione dal giudizio. Preferisco sia il film a parlare per me, che sia la serie a creare questo spazio di liberà interpretativa”.

Sempre più spesso la cronaca entra nei cinema e in tv. Accadeva anche in passato ma in questi ultimi anni molto di più. Perché si sente l’urgenza di raccontare queste storie?

“Posso dire perché io ho sentito il bisogno di raccontare questa storia. Questa storia per me ha due nature. Una è crime, noir. L’altra è quella di cui parlavo all’inizio, la saga famigliare ma anche il viaggio esistenziale. Ho cercato di non raccontare solo il crimine, anche se c’è una storia della quale si vuole conoscere la verità, ma al tempo stesso credo che, se c’è una novità, è aver cercato di gettare una sonda che ascoltasse le sfumature più lievi, notasse sguardi, esitazioni, malinconie, nostalgie di chi è stato coinvolto.

Sento che abbiamo a che fare con personaggi potentissimi, che hanno fatto un percorso che li ha portati fin qui. Ho cercato di raccontare degli esseri umani che si trovano di fronte a una svolta incredibile della loro vita che cambierà per sempre il loro destino”.

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