Chi parla di tribù e chi di persone

La tragica vicenda dell'ex calciatore Seid Visin obbliga ad alcune considerazioni, dato che un atto sempre imperscrutabile quale è un suicidio è stato subito catturato dalle speculazioni di chi ha voluto vedere una reazione di fronte al razzismo

Chi parla di tribù e chi di persone

La tragica vicenda dell'ex calciatore Seid Visin obbliga ad alcune considerazioni, dato che un atto sempre imperscrutabile quale è un suicidio, di cui nessuno può mai davvero e compiutamente indicare le ragioni, è stato subito catturato dalle speculazioni di chi ha voluto vedere in quel gesto estremo una reazione di fronte al razzismo. Due anni fa Seid aveva scritto agli amici e alla psicoterapeuta una toccante lettera sul tema, ma in queste ore il padre ha chiesto di evitare speculazioni: «Mio figlio non si è ammazzato perché vittima di razzismo. È sempre stato amato e benvoluto, e la chiesa per i suoi funerali era gremita di giovani e famiglie».

La società italiana conosce vari fenomeni d'intolleranza: anche verso chi ha la pelle scura. Sarebbe però grave se si volesse sfruttare tutto ciò per ragioni politiche, al solo fine di ottenere voti. In questo senso, è bene che la sinistra non segua la strada del Partito democratico statunitense, che ha costruito il proprio successo operando un'autentica balcanizzazione della società: smettendo di rivolgersi alle persone, ma invece avendo quali propri interlocutori quei gruppi (etnici o d'altro tipo) ritenuti, a torto o a ragione, vittime della società.

Se si ripetesse quell'errore, ci si troverebbe ad avere una complessa articolazione di comunità ritenute svantaggiate: giovani, donne, neri, poveri, gay, musulmani e via dicendo. A quel punto ognuno smetterebbe di essere una «persona» per farsi membro di questa o quella realtà oppressa dagli unici colpevoli: i maschi bianchi eterosessuali di mezza età e appartenenti al ceto medio.

Questa rappresentazione è falsa, anche se viene costantemente alimentata dalla cosiddetta cancel culture, che vuole liquidare l'intera civiltà occidentale. Quel che è ancor peggio, raffigurando in tal modo il nostro universo sociale, si finisce per scherzare con il fuoco, poiché se le diversità (di genere, cultura, religione, età, reddito, ecc.) smettono di essere un tratto cruciale di un mondo variegato e multicolore, ma invece generano conflitti che non hanno ragione di esistere, la nostra possibilità di convivere viene meno.

È giusto essere vigili di fronte alla possibilità che gli episodi d'intolleranza e violenza si moltiplichino. Se però dovessimo continuare a costruire regole che attribuiscono uno status particolare a ognuno di noi, confinandoci entro un tratto specifico della nostra identità (che, per sua natura, è plurale), finiremmo per dissolvere il diritto stesso.

Per fortuna non tutti, a sinistra, vogliono la fine di quell'universalismo che guarda a ogni persona come a un soggetto dotato di specifiche caratteristiche, ma non rigidamente confinabile in esse.

Il riconoscimento dell'altro passa attraverso la constatazione fondamentale che siamo tutti esseri umani: quali che siano i nostri tratti particolari. Mentre il tribalismo alza steccati e la speculazione politica delle disgrazie ci spinge tutti verso una lotta civile generalizzata.

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