Speravamo di aver chiuso la stagione della paura: le migliaia di positivi, le rianimazioni che si riempiono e la somma dei morti. Contavamo di esserci messi alle spalle i tanti errori commessi dalla politica nei primi mesi dell'epidemia, quando l'inesperienza veniva fatta valere come attenuante, se non come vera e propria medaglia da esibire a sostegno dello sbandierato «modello italiano». Ci sbagliavamo. E non tanto perché oggi i numeri del contagio in Italia inducano effettivamente alla prudenza, quanto piuttosto perché nella gestione pubblica dell'epidemia sembra di aver fatto - parafrasando Mao - un grande balzo all'indietro. Un balzo di volta in volta tragico, demenziale e grottesco.
È possibile, dopo avere passato una stagione a riempire la bocca e i talk show del «mantra-tamponi», trovarsi con un sistema di monitoraggio che sta per saltare? È accettabile, dopo la spoon river di medici e infermieri morti per Covid, ricominciare a parlare di infezioni in corsia? E, in attesa dei fondi europei - decideranno se solo Recovery o anche Mes -, è giustificabile che gli ospedali del Sud si trovino già saturi di pazienti, come se il virus fosse un improvviso fenomeno settembrino e non ci fosse stato il tempo per prepararsi a una seconda ondata? Come sempre - disperati, ma non seri -, ci distinguiamo per la perdibile diatriba sul burocratese, immersi nelle sfumature lessicali delle circolari ministeriali - questa volta la vexata quaestio è se correre sia sport e passeggiare una semplice attività motoria - così come mesi fa ci siamo districati tra innumerevoli autocertificazioni per uscire di casa/andare al lavoro/raggiungere i familiari/andare dal medico o a farsi benedire, oppure torniamo ai giorni dei «congiunti», l'indistinta categoria affettiva non all'altezza di un matrimonio, ma più solida di un'amicizia qualunque, ora che nel Dpcm in arrivo si ipotizza di normare anche la vita più privata, facendo entrare lo Stato nelle abitazioni degli italiani. È questo - quasi più del virus - che rischia di portare il Paese alla rassegnazione.
È la protervia con cui insistiamo a sbagliare. È l'ostinazione con cui, perdendo tempo, viaggiamo spediti verso il nostro iceberg. È il perseverare nell'errore la nostra dannazione politica. Perché è chiaro: non andrà tutto bene se tutto andrà come prima.
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