Le chiese chiuse e la fede in cortocircuito

Le chiese chiuse e la fede in cortocircuito

Chissà quante volte si sarà fermato ad ammirare quel dipinto folgorante, la vocazione di San Matteo, custodito nella Cappella Contarelli. Le cronache del virus, che non distingue il sacro dal profano, ci dicono che un sacerdote di 43 anni, di rientro da Roma e da quello scrigno di tesori che è San Luigi dei Francesi, è ricoverato a Parigi per il Covid-19, e la chiesa sbarrata. Costernazione, impotenza e la voglia di non darla vinta all'entropia generale, a quell'accartocciamento della dimensione sociale, emergono in questi giorni dal mondo cattolico. Le messe sono sospese, anche se molti, nel dibattito stretto fra caduta del Pil e chiusura delle scuole, non se ne sono accorti.

I vescovi lombardi rilanciano chiedendo di potere ripartire con le messe feriali, che in effetti non sono frequentate da moltitudini di fedeli, e intanto ci si attrezza con funzioni a porte chiuse, come le partite, in streaming. C'è chi azzarda, e non poteva mancare, un paragone impietoso con i secoli passati, quando i fedeli si esponevano e non arretravano davanti alla peste, al contagio e alle cataste di morti.

Serpeggia nelle comunità un senso di disorientamento, inevitabile, ma anche qualcosa in più: la spinta per dare voce a quest'assenza che pesa, come se la questione fosse anche un'esibizione muscolare di coraggio che oggi c'è e non c'è. Sepolto dalle raccomandazioni, dai protocolli, dalle procedure stabilite dai tecnici.

Ma, forse, proprio il capolavoro di Caravaggio ci aiuta a comprendere e fare un passo necessario in un momento così difficile: Matteo è, o dovrebbe essere, uno degli uomini seduti al tavolo, quello con la folta barba che col dito sbigottito pare dire: «Stai cercando proprio me?». Ma Cristo entra nella stanza e chiama proprio lui; un ragazzo non si accorge di nulla e continua a contare le monete. Gli altri personaggi sembrano riproporre l'eterna domanda: proprio lui? Proprio noi? Il cristianesimo è questa scintilla di umanità, questa commozione profonda che si riversa sulle nostre esistenze fragili e dubbiose, sulle paure che ci portiamo dentro, come ricordava ieri sul Corriere della sera don Julian Carron. Il cristianesimo è questo scatto e questo abbraccio, l'abbraccio di chi si è imbattuto negli occhi e nelle facce che hanno sconfitto quella paura.

Tutto è prezioso per la fede: anche le messe con un pugno di devoti nell'indifferenza generale e pure i collegamenti via web. Ma non è necessaria una dose supplementare di eroismo e non vale la pena nemmeno abbandonarsi a suggestioni cariche di rimpianto e neppure bandire nuove crociate virtuali contro la società sempre più laicizzata, perfino davanti ad angosce ancestrali.

Quello che conta è quell'incontro che riempie e sconvolge: Matteo l'esattore che per la prima volta va oltre i calcoli avidi e la sete famelica di denaro.

Matteo come tutti noi. Con le chiese, speriamo presto aperte ma anche chiuse. Nell'emergenza e nella normalità che spesso è anche peggio, perché ci fa dimenticare la nostra infinita grandezza.

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