Sorpresa, Milano antifascista celebra Mussolini socialista

Dopo avere abbandonato il Partito socialista e fondato Il popolo d'Italia, nel 1914, Benito Mussolini aveva fatto la sua guerra: prima al fronte, dove fu ferito, poi dalla sede del quotidiano

Sorpresa, Milano antifascista celebra Mussolini socialista

Dopo avere abbandonato il Partito socialista e fondato Il popolo d'Italia, nel 1914, Benito Mussolini aveva fatto la sua guerra: prima al fronte, dove fu ferito, poi dalla sede del quotidiano. Aveva intuito per tempo che, al termine del conflitto, l'Italia non sarebbe più stata divisa soltanto in classi e in posizioni politiche ma soprattutto fra chi aveva voluto e combattuto con entusiasmo e chi aveva osteggiato e malsopportato la guerra. E capì che i primi avrebbero rappresentato la forza più nuova, più determinata e attiva.

Subito dopo Caporetto è facile cogliere nei suoi scritti passaggi collegabili maggiormente al Mussolini fascista che a quello socialista: «La condotta democratica della guerra», scrisse il 16 dicembre 1917, «è la più sublime delle stupidità umane». Poi propose - per provocazione - che i giornali venissero aboliti, lasciando al governo il compito di informare con un unico quotidiano. Il conflitto, insomma, ai suoi occhi giustificava la dittatura: e il fascismo verrà inteso da Mussolini come una guerra perenne, contro i nemici esterni e quelli interni, contro l'arretratezza economica e i conflitti sociali, contro la prudenza e la burocratizzazione, quasi contro tutto.

Nel 1918 il suo linguaggio e i suoi temi somigliano già molto a quelli del futuro duce: «Combattere oggi e nello stesso tempo lavorare, navigare, produrre, volare: conquistare la terra, i mari, i cieli, ecco l'Italia grande che va, sicura dei suoi destini, incontro all'avvenire...» (3 luglio 1918). La trasformazione era dovuta anche all'esperienza, ormai lunga, di proprietario: Il popolo d'Italia, frutto del suo lavoro e della sua imprenditorialità. Da quattro anni è un padrone, e non ci trova più niente di vergognoso, anzi ne va fiero: «L'essenziale è produrre. Questo è il cominciamento. (...) Bisogna esaltare i produttori, quelli che lavorano, quelli che costruiscono, quelli che aumentano la ricchezza e quindi il benessere generale» (18 dicembre 1918). Le necessità gestionali di un'azienda avevano contribuito parecchio pure a livellare gli alti e bassi del suo carattere, a renderlo più circospetto e programmatico.

Era anche, da ancora più anni, un capo: sa di esserlo e vuole esserlo. Pietro Nenni tracciò un ritratto di Mussolini socialista che vale anche per il Mussolini fascista: «Tra lui e il mondo di fronte - il mondo dei borghesi, il mondo ufficiale - vi era un abisso. Le considerazioni mondane e sentimentali non contavano per lui. Plebeo era e pareva volesse restare, ma senza amore per le plebi. Negli operai ai quali parlava non vedeva dei fratelli, ma una forza, un mezzo del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo».

Il dopoguerra fu un brusco risveglio anche per lui. I socialisti lo disprezzavano, i moderati non lo avevano in simpatia e la destra lo ignorava, esaltata piuttosto dalla figura dell'aristocratico poeta-eroe Gabriele d'Annunzio, il capo carismatico di un seducente misticismo patriottico. Però tutti erano «degli sperduti alla ricerca di una strada», come Mussolini dichiarerà vent'anni dopo a Yvon De Begnac: «Poteva indicarla il mio Popolo d'Italia? Io stesso non osavo confermarlo a me medesimo. Ma l'azienda c'era e bisognava portarla avanti». Certo, il fascismo non nacque per «portare avanti» l'azienda di Mussolini ma il futuro duce capì che intorno a sé e al giornale poteva raccogliere gran parte dei reduci, purché trovasse la strada sulla quale si sarebbero avviati volentieri. La individuò, al momento, in una sinistra nuova che non aspirasse a rovesciare lo Stato ma lo «socializzasse» con strumenti diversi (e ben più determinati) di quelli del socialismo riformista.

Dal «Covo», la sede del quotidiano - cui si si riferiscono le prime immagini ritrovate negli archivi della Cineteca italiana - lanciò il suo appello ai reduci, ai «produttori», alla borghesia che temeva la rivoluzione bolscevica. E il 23 marzo 1919 fondò in piazza San Sepolcro - con un centinaio di presenti - i Fasci di combattimento. Ne sarebbe nato un programma d'avanguardia: suffragio universale allargato alle donne e ai diciottenni, assemblea nazionale per scegliere tra monarchia e repubblica, abolizione del Senato, giornata lavorativa di otto ore, minimi salariali di Stato, modifica delle leggi assicurative, affidamento dei trasporti alle organizzazioni proletarie, totale libertà di pensiero, di parola, d'associazione e di stampa, sequestro dei beni delle congregazioni religiose, abolizione dei titoli nobiliari, imposta progressiva sul patrimonio, revisione di tutti i contratti delle forniture belliche, nazionalizzazione delle industrie di guerra e istituzione di una milizia nazionale. Insomma, un programma che mischiava nazionalismo, anarchia e vene socialisteggianti ma nell'essenza era l'espressione di un movimento che oggi definiremmo «progressista».

La prima volta in cui i fascisti salirono alla ribalta nazionale fu il 15 aprile 1919, quando durante un più vasto scontro fra nazionalisti e scioperanti socialisti, attaccarono e distrussero la sede milanese dell'Avanti!, procurando danni gravissimi alla tipografia e alla redazione del giornale.

Mussolini negò di avere organizzato l'azione ma dichiarò che i fascisti si assumevano «tutta la responsabilità morale dell'episodio». Userà le stesse parole in Parlamento, poco più di cinque anni dopo, il 3 gennaio 1925, instaurando la dittatura.

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