C'è chi, sul versante liberal, è rimasto di sasso per il nuovo abito di sinistra con cui Nicola Zingaretti e il suo vice, Andrea Orlando, hanno vestito il Pd nella kermesse di Bologna. «È una sterzata a sinistra osserva senza schierarsi Emanuele Fiano, mente piddina per le riforme istituzionali che però dovrebbe portarsi dietro una legge elettorale proporzionale. Invece, Nicola parla ancora di un Pd a vocazione maggioritaria, solo che con una piattaforma del genere avrebbe successo solo a Cuba». Ancora più perplesso Andrea Romano, altra testa d'uovo liberal del partito. «Siamo scherza alla piattaforma Corbyn. Alla fondazione guevarista. Al D'Alema che diceva abbiamo un vasto programma. Ma questo schema non si coniuga con il partito a vocazione maggioritaria, semmai con un partito che dovrebbe assecondare il trasversalismo 5stelle e il tentativo centrista di Renzi per aumentare la capacità di rappresentanza della coalizione». Mentre un altro degli intellettuali piddini, Stefano Ceccanti, si sofferma sui limiti passati e presenti della proposta. Mi ricorda spiega la proposta dell'usato sicuro con cui Bersani andò al voto nel 2013. La teoria era quella di puntare sull'elettorato tradizionale del partito: si è visto come è andata».
E c'è chi, invece, sul versante mancino, anche se contento, non intravede però una consequenzialità tra la «sterzata a sinistra» e le altre scelte di Zingaretti. «È un passo avanti è il giudizio di Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana ma la contraddizione è ancora quel tirare in ballo il partito a vocazione maggioritaria con il 17%». Più ottimista l'ex segretario della Cgil, ora con Liberi e Uguali, Gugliemo Epifani, che sogna già una ricomposizione tra Leu e Pd. «Se facessimo un giochetto è il suo ragionamento - e scegliessimo quale tra queste tre parole svolta a sinistra, proporzionale e partito a vocazione maggioritaria non c'entra nulla con le altre, sceglieremmo quest'ultima. Sono fiducioso: quest'impostazione si porta dietro una riaggregazione tra noi e il Pd».
Messa così è difficile comprendere se la proposta di Zingaretti, con tanto di rilancio di ius soli, sia un atto di puro «masochismo», visti i tempi, o se, invece, corrisponda ad un piano ambizioso per rifondare la sinistra. In fondo oggi la stravaganza regna in politica se si pensa che nel week-end Silvio Berlusconi ha acquistato centinaia di dipinti alle aste Tv; Renzi ha cantato Rimmel e Generale con al pianoforte Davide Bendinelli, ex forzista in arrivo ad Italia viva; e, addirittura, per avere una cena tête à tête a base di porcini, Giuseppe Conte ha portato il direttore del Fatto, Marco Travaglio, suo consulente ombra, in un posto in culo al mondo, la Baita La Faggeta, proprio sul cucuzzulo di Soriano nel Cimino.
C'è da capire, quindi, se la «svolta» di Zingaretti è un'altra stranezza o se, invece, è una decisione strategica. Anche perché la scelta è stata accompagnata da novità rivoluzionarie e atti contraddittori: ad esempio, sia Orlando, sia Gianni Cuperlo, ideatore della tre giorni di Bologna, hanno ritirato fuori l'espressione «conflitto sociale», che era stata, invece, sotterrata da Walter Veltroni nell'atto fondativo del Pd, il Lingotto del 2007. Poi, quasi per rimediare alla poca attenzione data nel dibattito alle tematiche legate all'immigrazione, Zingaretti all'ultimo, nella sua relazione, ha rilanciato tutto l'universo umano sull'argomento, dallo ius culturae allo ius soli. Un arrembaggio confuso, testimoniato dal tweet digitato dallo staff del segretario che parlava di rilanciare «ius culturae e ius culturae». Ripetizione erronea, figlia della voglia di enfatizzare. Un po' come la gag della lettera di Totò e Peppino: «Punto, punto e virgola, doppio punto». Inconvenienti che capitano quando si è nel pallone e si vuol strafare.
Ma a parte gli infortuni c'è una ratio nella svolta di Zingaretti. Basta guardare a uno studio sull'orientamento dell'elettorato americano che Andrea Orlando, vero deus ex-machina della svolta, porta sempre con sé: negli anni '90 la maggior parte del consenso si concentrava al centro, mentre gli elettorati di forte identità di Democratici e Repubblicani erano minoritari; oggi, invece, la situazione è opposta, le estreme identitarie dei due elettorati hanno più consenso dell'elettorato di confine tra i due partiti. Spiega Orlando: «Trump negli Usa e Salvini in Italia sono la conferma di questo fenomeno: il partito a vocazione maggioritaria lo fai dalle estreme. Ecco, noi dovremmo fare quello che ha fatto Salvini sul versante della sinistra. Lui lo ha fatto scegliendo nella società degli ultimi e dei penultimi, di rappresentare i secondi. Anche noi dovremmo contendergli questa rappresentanza, puntando sugli operai che abbiamo perso, gli abitanti delle borgate, quella classe media che si è impoverita. E dovremmo davvero essere post-ideologici. Ormai il Pci, bandiera rossa, fanno parte del modernariato, non contano nulla. Quello che conta è contendere a Salvini quella parte della società soccombente, emarginata, arrabbiata. Ecco perché è giusto parlare di conflitto sociale come fa Landini. Sapendo che la priorità, la struttura per usare un termine marxiano, è il pane; i temi che, invece, riguardano l'immigrazione sono la sovrastruttura, sono importanti, ma vengono dopo. Se vuoi evitare l'antagonismo tra i penultimi e gli ultimi devi rassicurare prima i penultimi. Altrimenti parli con gli immigrati, ma non entri nelle borgate, le regali a Salvini».
Discorso che ha un senso, ma che cozza con il rilancio zingarettiano dello ius soli. La verità è che un Pd confuso si trova ad un bivio: interpretare il ruolo del partito a vocazione maggioritaria che polarizza sul versante della sinistra, un po' come fa la Lega a destra; o essere una parte, magari il perno, di una coalizione con tante anime, plurale, che tende ad a rappresentare il centro o altri segmenti elettorali. «È questo il punto!», rimarca Graziano Delrio. Mentre Matteo Orfini sottolinea un dato di non poco conto: «Negli ultimi anni le identità di destra e sinistra si sono caratterizzate, soprattutto, sui diritti. Se parli solo di pane e non di diritti, ad esempio, non coinvolgi le sardine di Bologna».
Senza contare che l'elettorato di confine è quello che determina l'esito delle elezioni. «È quello sostiene lo stesso Giancarlo Giorgetti, stratega del Caroccio che decide la vittoria. Poi è vero che siamo rimasti in campo solo noi e il Pd, visto che siamo all'assurdo che il partito di maggioranza relativa decide di non presentarsi alle elezioni. La verità è che siamo ad una crisi di sistema. Parli di riforme? Ma con chi interloquisci? Con Zingaretti che una volta dice una cosa e poi un'altra. O con i grillini che non esistono più. C'è una crisi di qualità della politica».
Polarizzazione Pd-Lega, crisi di sistema, svolta identitaria, sono tutti argomenti che nella mente di Matteo Renzi evocano una voglia di elezioni anche nel partito di Zingaretti: «Se il Pd svolta a sinistra bene: meglio di così, per noi, si muore. Solo che non sanno di che parlano. Uno schema del genere dovrebbe portare ad una legge proporzionale; Orlando, invece, pensa, sotto sotto, alle urne con l'attuale legge.
Una scelta del genere, però, determinerebbe la rottura del Pd con noi e i grillini; Zingaretti andrebbe solo ad eventuali elezioni politiche per portarsi a casa uno striminzito 15%; e in solitudine anche alle regionali del Lazio e della Toscana. Si facciano due conti prima di fare cazzate».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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