A l Beverly Hilton Hotel di Los Angeles è andata in scena una marcia funebre di nero addobbata. In occasione della 75esima cerimonia di premiazione dei Golden Globe, i più importanti premi americani per il cinema e le serie tv (anticamera degli Oscar), la gran parata di star e starlette registi, attori e aspiranti qualcosa si tinge di total black. A tener banco, ancor prima delle pellicole in gara, è la «lunga notte delle donne in nero» per dire che no, nessuna molestia sessuale passerà più impunita. Lo scorso primo gennaio, in una lettera sul New York Times, si annuncia la nascita di un'associazione dal nome «Time's up» (il tempo è scaduto), promossa da trecento donne contro gli abusi nel mondo dello spettacolo.
Così, la «lunga notte» che da sempre ci fa sognare per il tripudio di spacchi e pizzi, tutti pezzi unici di haute couture, esibiti da donne bellissime e irraggiungibili, si trasforma nell'ennesimo episodio di una estenuante crociata contro il porco-orco. E dire che noi, umili spettatori, ci saremmo accontentati dello show, alternanza di lievità e suspense, un'arte in cui il talento americano è impareggiabile. Invece eccovi servita l'ennesima performance pedagogica, con tanto di tailleur scuri e spille «time's up», sguardi contriti e toni solenni. Nella scontata paternale contro l'abuso si cimentano le stesse donne e gli stessi uomini che non si perdevano un party di Harvey Weinstein, sgomitavano per avere una parte nei film da lui prodotti e, fino alla scorsa edizione, il tappeto rosso lo calcavano al suo fianco, spesso in abiti succinti, sempre a favore di telecamera, sorrisi e abbracci, eppure i vizietti del chiacchieratissimo produttore, infoiato permanente, erano ben noti.
L'associazione Time's up ha già raccolto 15 milioni di dollari per l'assistenza legale a chi voglia farsi avanti e denunciare, gli americani hanno nel dna la cultura dell'obolo, la donazione privata per una causa giusta com'è quella di fornire sostegno economico a chi, ritenendosi vittima di molestie, intenda rivolgersi a un tribunale. Quel che invece inquina il dibattito, ed è destinato a incidere sul rapporto tra i sessi, è l'ossessione moraleggiante di chi cavalca la «caccia al porco» attraverso l'indiscriminata colpevolizzazione del genere maschile in quanto tale. «Da quest'anno ha annunciato Vanessa Friedman, direttrice delle pagine di moda del Nyt smetteremo di mettere le donne in competizione in base agli abiti sfoggiati sui red carpet».
Addio alle classifiche delle attrici meglio (e peggio) vestite. Ma perché mai? Nell'apoteosi del politicamente corretto la donna, vittima sempre e comunque, può riscattarsi attraverso la castigazione del corpo. Come se, contro i Weinstein di tutto il mondo, noi donne dovessimo reagire coprendoci le cosce sotto una tunica nera.
Se proprio si fosse voluta inscenare la protesta dei vestiti nel primo grosso evento di Hollywood dopo l'esplosione del caso Weinstein, Eva Longoria, Emma Stone, Maryl Streep e il gineceo di vendicatrici della femminilità violata avrebbero fatto meglio a esortare le colleghe a indossare i colori più sgargianti, a mostrarsi più seducenti che mai. E se proprio si optava per il monocromo, la scelta poteva ricadere sul bianco, luce, purezza, innocenza, verginità. Ma forse per qualcuna sarebbe stato un «richiamo» imbarazzante.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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