Il doppio del Pil dove vincono i moderati

Il doppio del prodotto interno lordo dove vincono i moderati: 916 miliardi contro i 420 dei collegi a favore dei 5 Stelle

Il doppio del Pil dove vincono i moderati

C' è un altro risultato elettorale, ben più netto di quello ufficiale, emerso ieri dalle urne. Vede il centrodestra al 54,5% e i Cinque stelle al 25 per cento. Un trionfo, con un vantaggio di oltre il doppio sull'avversario. È il risultato elettorale del Pil, quello dell'Italia che produce, vende, esporta e consuma.

Il calcolo è semplice: sulla base dei dati territoriali Istat (disponibili fino al 2016), la somma del prodotto interno lordo delle otto regioni dove il centrodestra ha ottenuto nettamente la maggioranza fa 916 miliardi. Mentre quella delle nove regioni nelle quali si è imposto di gran lunga il M5s si ferma a 420 miliardi. In percentuale sul totale del Pil 2016 (1.680 miliardi) fa per l'appunto 54,5 a 25 per cento. Considerando poi solo le quattro regioni del Nord dove il centrodestra si è imposto ancora più largamente (ha preso più del 40% dei voti, con un distacco da M5s di almeno il 15%) e cioè Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia; e mettendole a confronto con le sette regioni del Sud dove è accaduto il contrario (Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), il risultato non cambia molto: diventa di 721 miliardi (43% del Pil nazionale) a 348 (meno del 21%): sempre più del doppio.

Non partecipano a questo conteggio la Toscana (unica regione dove vince complessivamente il Pd, con i suoi 112 miliardi di Pil) e il Lazio (che «fattura» 187 miliardi), dove il centrodestra ha avuto sì più voti, ma con un vantaggio sui Cinque stelle troppo esiguo (1-2%) perché sia significativo in questo particolare conteggio. In altri termini questa lettura dello stivale elettorale dà il quadro economico di come si è votato: il tessuto industriale, delle pmi ed europeista del Nord ha puntato deciso sul centrodestra e sulla Lega in particolare. Mostrando, come era emerso chiaramente alle assise generali di Confindustria di metà febbraio, di non temere gli estremismi di Matteo Salvini. Anzi, di gradirne l'energia giovanile, nel solco della tradizione leghista che in Veneto e Lombardia è ormai consolidata. Simmetricamente, il Paese più attratto da M5s è quello meno produttivo e di minor peso internazionale: i dati parlano chiaro.

È come se, dalla Toscana in giù, più povera di imprese e quasi priva di grandi industrie, avesse fatto premio la politica Cinque stelle che ha nel reddito di cittadinanza il suo faro. Può essere l'ennesima chiave di lettura, magari neanche troppo originale, della questione meridionale. Sta di fatto che a valle di queste elezioni, la mappa del Pil fornisce anche una lettura politica: a chi dovrebbe andare la prossima guida del Paese tra le due forze che si sono imposte? Alla politica pauperista e assistenziale del neo primo partito italiano, o alla coalizione di centrodestra a guida leghista che con sole quattro regioni mette insieme il 43% del Pil, una quota analoga dei consumi nazionali e una percentuale ancor maggiore di entrate fiscali?

A guardare la reazione quasi immobile dei listini finanziari, ai quali non a caso si è rivolto Salvini nelle sue prime dichiarazioni («i mercati non hanno nulla da temere»), sembra che essi puntino più sulla seconda. Sulla stessa linea di Confindustria che, pur senza sbilanciarsi (forse anche per la palese simpatia renziana del suo presidente, Vincenzo Boccia) si è ieri auspicata «un comportamento responsabile delle forze politiche nell'interesse del Paese».

E dunque con la stessa logica degli imprenditori medi e piccoli del Nord-Est, quella che considera il Salvini euroscettico come un passaggio superato e gli strali contro la legge Fornero e il Jobs Act tutto sommato addomesticabili all'interno della coalizione dei «conservatori». Quella dove le imprese si sentono naturalmente a casa loro. E alla quale hanno affidato la fiducia nell'ottica della ripresa del Paese.

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