Il dovere di tenere il punto

Non ci vuol molto a capire che il vertice di Berlino non è andato secondo gli auspici, perlomeno quanto alla trattativa sul Patto di Stabilità

Il dovere di tenere il punto
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Non ci vuol molto a capire che il vertice di Berlino non è andato secondo gli auspici, perlomeno quanto alla trattativa sul Patto di Stabilità. È bastata una frase della premier Meloni («Firmeremo solo un patto che protegga i nostri investimenti») per intuire che il muro eretto dai tedeschi sul rientro del debito e sul parametro del deficit resta al momento granitico. Si dovrà ancora scavare, scambiare, mediare per arrivare a un compromesso che sia funzionale per tutti. È perciò prevedibile che nelle due settimane che ci separano dall'8 dicembre, data forse ultima per definire l'intesa, verrà messa sul tavolo ogni merce politica disponibile, da una parte e dall'altra, pur di definire una formula che impedisca all'Europa di precipitare nell'ignoto.

Per questo sorprende che un economista come Domenico Siniscalco, già ministro dell'Economia e prim'ancora direttore generale del Tesoro, oggi vice-chairman di Morgan Stanley, paragoni le resistenze del governo italiano su Patto e Mes alle tecniche in uso nei suk tunisini. Per giunta, spiegandoci che se c'è una cosa che da sempre indispettisce le autorità europee è presentarsi al tavolo con una logica «a pacchetto». Sorprende perché Siniscalco ben conosce gli angoli ottusi di Bruxelles, dove tutti scambiano tutto - proprio come in un suk - e se non alzi la voce a sufficienza vince sempre chi sta più a Nord. Dovrebbe perciò sapere, Siniscalco, che il solo modo per ottenere rispetto è non arretrare di un millimetro quando sai che il cedimento ti metterà nell'impossibilità di rispettare l'accordo. Inoltre, definire «pacchetto» la giusta pretesa del governo Meloni di un varo tempestivo dell'Unione Bancaria insieme al Patto rivisitato e al Mes, è quanto meno segno di insipienza, visto lo stretto legame che unisce i tre istituti in un'ottica di governance economica europea finalmente degna di tale nome. Non di «pacchetto» quindi si tratta, ma di un progetto coerente che sta in piedi solo se la costruzione dei tre pilastri procede in parallelo. E se l'obiettivo perseguito richiede tattiche frontali, non si capisce perché l'irrigidimento di Berlino è virtuoso e quello di Roma pedante e pretestuoso. Quasi che la Germania sia un esempio di trasparenza e coerenza, cosa che evidentemente non è visti i magheggi di bilancio che scopriamo ogni giorno.

Ciò detto, vi è un punto oltre il quale il rinvio della ratifica del nuovo Mes potrebbe produrre effetti indesiderati, diventando impuntatura ideologica e quindi politicamente spuntata. Questo punto non è però ancora stato raggiunto, e probabilmente non lo sarà fino a quando non verrà fatta chiarezza sui contenuti definitivi del Patto di Stabilità. Tra i due istituti esiste infatti una relazione che potrebbe diventare nociva, qualora passasse l'ipotesi che il ricorso alle risorse del Mes è parte del Patto, come alcune dichiarazioni da Bruxelles sembrano lasciar presagire.

Ci sono questioni che per un governo intellettualmente onesto non sono negoziabili, e non c'è flessibilità promessa che possa indurre ad accettare regole che si sa in partenza che verranno violate.

Il punto è che non si vorrebbe ricadere nella trappola che, per fortuna, sul finire dello scorso decennio costrinse tutti ad aprire gli occhi sull'efficacia del Patto, considerato che i danni prodotti stavano nettamente superando i vantaggi.

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