Il governo Draghi compie i fatidici cento giorni, e seguendo per una volta la tradizione americana si può farne un primo bilancio, non tanto sulla base delle quasi quotidiane diatribe dei partiti che lo sostengono (o dovrebbero sostenerlo), quanto del giudizio degli italiani. Molti si trincerano dietro un anodino «ha fatto più di quanto si aspettassero i pessimisti e meno di quanto sperassero gli ottimisti», ma le cose in realtà non stanno così. Lo scenario è cambiato in meglio, anche se in maniera ancora confusa e con gli inevitabili alti e bassi; e c'è ragione di sperare che questa tendenza continui.
Il risultato più evidente e forse il più prezioso prodotto dal cambio della guardia a Palazzo Chigi, è la risalita del prestigio e perfino dell'autorevolezza dell'Italia sul piano internazionale. È finito il tempo in cui Trump chiamava lo sconosciuto avvocato del popolo Conte «Giuseppi». Ora tutti, da Biden alla Von der Leyen a Macron, sanno di avere a che fare con un premier di grande esperienza, che ha accettato di mettersi in gioco non tanto per ambizione personale, quanto perché ha preso atto che c'era finalmente la possibilità di imprimere una svolta al Paese. Infatti, la voce dell'Italia si sta facendo sentire su quasi tutti i temi del momento, dalle iniziative sull'ambiente agli aiuti all'Africa, e si può perfino sperare che si trovi finalmente una qualche soluzione europea più favorevole a noi al problema dell'immigrazione. Molto significativo è stato il modo, discreto ma fermo, con cui Draghi ha salvato il nostro Recovery plan dalle critiche di Bruxelles. Parimenti, la sua presidenza ha contribuito a far sì che la Bce prosegua sulla linea da lui inaugurata a suo tempo e che rimane essenziale per favorire la nostra ripresa.
Sul piano interno le cose sono inevitabilmente più complicate, soprattutto perché i partiti che hanno accettato di far parte della maggioranza non cessano un momento di tirarlo per la giacca, rendendo difficile almeno finora l'avvio di quel serio programma di riforme che non è solo indispensabile per riparare i danni del Covid e uscire da vent'anni di stagnazione, ma che l'Europa (...)
(...) ci chiede prima di elargire i fondi che ci ha destinato (siamo, non dimentichiamolo, il Paese che dovrebbe riceverne di più). Tuttavia, anche su questo piano non mancano i segnali che il premier non intende arrendersi a questo gioco e, quando serve, non esita a picchiare il pugno sul tavolo. Per esempio, quale presidente del Consiglio avrebbe licenziato, nel giro di pochi giorni, tre personaggi importanti strettamente legati al precedente governo come il supercommissario Arcuri, il generale Vecchione e il responsabile della gestione del reddito di cittadinanza Mimmo Parisi?
Per quanto riguarda la governance, Draghi in tutti i suoi interventi - fa capire di avere un programma preciso, non condizionabile da interessi di partito, né di destra né di sinistra. Un programma basato su un sostanziale ottimismo che dovrebbe agire sul morale di un Paese disorientato e stanco, ma che è già confortato da un primo importantissimo risultato: la sia pure ancora parziale vittoria nella lotta contro il Covid, grazie soprattutto alla «militarizzazione» delle vaccinazioni, di cui giovedì il premier si è (a ragion veduta) attribuito il merito.
Ciò non significa naturalmente che tutto sia perfetto e la strada sia in discesa. Il Recovery plan rimane in più punti troppo generico, la riforma della giustizia e quella fiscale sono per ora bloccate dai veti incrociati e le previste resistenze della burocrazia a quella che dovrebbe diventare una specie di rivoluzione si accentuano di giorno in giorno. Si ha anche la netta impressione che, per realizzare il suo progetto di rinnovamento, manchi a Draghi un numero sufficiente di «migliori» disposti a raccogliere la sfida. Per resistere meglio alle pressioni dei ministri di parte che è stato costretto a imbarcare, il premier sembra avere formato un nucleo centrale di fedelissimi, con ruoli fondamentali , come Daniele Franco e Roberto Cingolani, che non parlano quasi mai ma su cui può contare al cento per cento.
Ora la battaglia principale è per il rilancio dell'economia e per il riassorbimento dell'enorme disoccupazione causata dalla pandemia che mette in pericolo la stessa solvibilità dello Stato.
Il decreto «Sostegni bis» varato giovedì dovrebbe contribuire a colmare certe lacune e porre rimedio a certe diseguaglianze, ma non è una panacea ed è difficile dire se i nuovi 40 miliardi messi sul piatto basteranno a impedire un autunno di lacrime e sangue. Ci vorrebbe, da parte di tutti, la consapevolezza che siamo ancora nel mezzo di una tempesta, ma che la nave ha il capitano più capace di uscirne e sabotargli le vele non è nell'interesse del Paese.
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