E se il processo a Putin fosse un boomerang?

Giocare con le paure di uno zar in possesso di seimila testate nucleari rischia di rivelarsi pericoloso.

E se il processo a Putin fosse un boomerang?

«Scene orribili e rivoltanti con le immagini del corpo insanguinato trasmesse in tutto il mondo». Con queste parole dai toni disgustati, molto diverse dal suo stile distaccato, il presidente russo Vladimir Putin denunciò nel 2012 l'operazione della Nato che permise ai ribelli libici di catturare, seviziare e uccidere un Muhammar Gheddafi in fuga. Secondo Philip Short, autore di una monumentale biografia del presidente russo, dietro quelle parole si nascondeva la paura «che un giorno potesse capitargli qualcosa di simile». Una preoccupazione confermata - secondo l'autore - dalla compulsiva attenzione con cui il presidente russo guardò il video dell'esecuzione del Colonnello, decidendo di tenerne una copia nel cassetto. Il precedente fa ben capire quanto l'incriminazione, annunciata ieri dalla Corte Internazionale dell'Aia, rischi di influenzare le scelte del presidente russo. Un presidente già convinto che l'uccisione di Gheddafi, l'esecuzione di Saddam Hussein e la consegna di Slobodan Milosevic all'Aia altro non fossero che la sbrigativa eliminazione di leader troppo scomodi per l'Occidente.

Ma giocare con le paure di uno zar in possesso di seimila testate nucleari rischia di rivelarsi pericoloso. «Con questa decisione lo stiamo mettendo all'angolo cancellando qualsiasi possibilità di negoziato» - spiega a Il Giornale una fonte diplomatica che segue l'incriminazione per conto del nostro governo. Parole preoccupate e fondate. C'è da chiedersi infatti perché un Putin minacciato d'arresto nei 123 Paesi firmatari dello Statuto di Roma debba, da oggi in poi, accettare un negoziato per il cessate il fuoco. Un negoziato al termine del quale dovrebbe rassegnarsi a una vita da paria all'interno dei confini russi o temere, al pari di Milosevic, il trasferimento in una cella dell'Aia in caso di perdita del potere. Anche perché dal punto di vista russo l'incriminazione è puramente strumentale. Lo dimostrerebbe il largo anticipo con cui il procuratore capo della corte internazionale Karim Khan annunciò l'apertura di un'inchiesta sulla dirigenza russa fin dal 28 febbraio 2022, ovvero solo quattro giorni dopo l'invasione dell'Ucraina e assai prima di qualsiasi documentato crimine di guerra. Ma al di là della fondatezza o meno delle accuse il vero guaio è l'ostacolo che l'incriminazione frappone a una fine negoziata delle ostilità. Qualsiasi trattativa nell'attuale sistema politico russo deve avere il beneplacito della presidenza. E qualsiasi ipotesi di intesa deve essere autorizzata da Putin. Ma il via libera a un negoziato concesso da un presidente nel mirino della giustizia internazionale verrebbe percepito dall'opinione pubblica russa come un cedimento e una sconfitta. E in Russia - come testimoniano le parabole dello Zar Nicola II e di Gorbaciov - chi accetta la sconfitta o si arrende al nemico perde inevitabilmente il potere. Dunque, in termini politici e strategici, la decisione della Corte dell'Aia finisce con il demandare le sorti della guerra al campo di battaglia o, peggio, alla dissoluzione del sistema di potere russo.

Per vedere la fine della carneficina ucraina, insomma, bisognerà attendere o una plateale sconfitta della Russia o una rivolta interna alla Federazione capace di ribaltare l'attuale sistema di potere. In entrambi i casi bisognerà fare i conti con il rischio di un'escalation difficilmente controllabile. Chi conosce il leader russo e la sua paura di finire nelle mani del nemico occidentale giura che un Putin con le spalle al muro non esiterebbe a ricorrere all'opzione nucleare.

Una scelta che Putin ha evocato già nel 2018, quando ipotizzò uno scontro nucleare con l'Occidente concluso dalla reciproca distruzione. «Da martiri noi andremmo in paradiso ma loro - disse lo Zar - non avrebbero neppure il tempo di pentirsene». Parole che all'Aia sembrano aver dimenticato.

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