Domani Eugenio Scalfari compirebbe cent'anni e qualche quotidiano lo ha già celebrato in termini legittimamente agiografici, ossia coi lemmi della letteratura destinata ai santi. È legittimo e comprensibile, mentre sarebbe di cattivo gusto, essendo la figura Scalfari assai divisiva, celebrarlo in termini opposti, ossia odiografici: non pare il momento, e comunque non si fa.
Più interessante, forse, sarebbe il tentativo di proporre uno stringato profilo di Scalfari per come lo riassumeremmo a un trentenne, il famoso trentenne medio al quale di Scalfari, e di altri, importa mediamente un accidente. In tal caso cominceremmo col dire che Scalfari non fu un grande giornalista: non in termini di scrittura, empatia col lettore, scoop e anfratti vari del mestiere, tanto meno fu noto per i suoi saggi senili. Le sue consuete «lenzuolate» domenicali su Repubblica (mediamente 12mila battute secondo il biografo massimo, Giancarlo Perna) erano il contrario di un buon esercizio di sintesi e di padronanza del linguaggio. Scalfari infatti fu, in primo luogo, un grande imprenditore giornalistico: contribuì a fondare il settimanale l'Espresso e nel 1976 fondò il quotidiano la Repubblica, che divenne, pur dapprima annaspando, l'unico serio concorrente del Corriere della Sera. Qui c'è un dettaglio che non tutti ricordano: Scalfari in precedenza aveva tentato di varare un quotidiano assieme a Indro Montanelli, che tuttavia si mostrò riluttante. Ecco, Montanelli: la sua fama giornalistica supera ampiamente i confini nazionali, come capita anche al nome di Oriana Fallaci: quella di Scalfari, giornalisticamente, non è invece pervenuta, ma come imprenditore giornalistico è conosciuto in tutta Europa. Montanelli fu sicuramente più famoso di Scalfari, il quale, però, fu più influente.
Scalfari per fondare Repubblica partì praticamente da zero e passò attraverso il disinvolto carico e scarico di defunti personaggi come Eugenio Cefis, Michele Sindona sino a al vivente Carlo De Benedetti: e quando vendette a quest'ultimo tutte le sue quote dell'Espresso e di Repubblica, nel 1989, l'allora 65enne Scalfari mise in cassaforte 93 miliardi di lire, e dimostrò che anche il giornalismo poteva rendere non ricchi bensì ricchissimi. Detto questo, sarebbe ingeneroso negare che Scalfari attraverso i suoi giornali anticipò anche uno stile smaccato e aggressivo (i titoli virgolettati, a tesi, le opinioni militanti rivolte a una sinistra nazionalpopolare da lui ribattezzata «il meglio del nostro Paese») che a tutt'oggi non è sempre oro, e neppure luccica, ma, come per certe trovate berlusconiane, se non le avesse inventate lui l'avrebbe fatto qualcun altro. È più interessante, in quest'ottica, il suo porsi regolarmente a capo di un partito trasversale che per decenni ebbe la pretesa di dettare l'agenda politica appoggiando questo o quel leader o facendosi appoggiare da lui, sempre in una sola e spavalda nonché - va detto - perdente cordata, perché occorre essere oggettivi: Scalfari fu anche il più celebre antesignano della miopia previsoria che ha contraddistinto la classe intellettual-giornalistica italiana del Dopoguerra; non ci ha mai preso neanche per sbaglio.
E qui, al nostro trentenne, andrebbero spiegati dei percorsi che su Wikipedia non si trovano, ma che piazzano Scalfari tra i più grandi arci-italiani di sempre: il giovane Eugenio fu fascista (scriveva sull'organo universitario Roma Fascista) e poi celermente antifascista, poi azionista, nel 1946 votò monarchia, nei primi anni Cinquanta era liberale, poi radicale, salvo accecarsi col temibile abbaglio del comunismo (quello vero, dell'Est) e dell'economia sovietica (che esaltò) e che poi, nelle piazze, contrastava l'ingresso italiano nella Nato oltreché sottoscrivere (come lui fece) lettere contro il commissario Luigi Calabresi. La sbandata più sottaciuta fu per Bettino Craxi (anni 1978, 1980, 1982, 1983) sino a quando, nel 1993, in piena Mani pulite, sottoscrisse il titolo più cubitale della storia della sua Repubblica («Vergogna, assolto Craxi») e scrisse che «Dopo il rapimento e l'uccisione di Moro è il giorno più grave della nostra storia repubblicana».
In altri termini, Eugenio Scalfari legittimò come nessuno che l'arcitaliana abitudine di sostenere il contrario di quanto si sosteneva in gioventù (o
anche solo due anni prima) è una serafica regola e non un'eccezione, non una peculiarità, ma un immancabile requisito dell'uomo di mondo. Mentre il destino dei coerenti, dei patetici coerenti, è solo quello di perdere treni.
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