Feroce, disumano e spietato: storia della "belva" Totò Riina

Ormai 86enne e gravemente malato, al "capo dei capi" potrebbe essere concessa la detenzione domiciliare. Un atto di pietà nei confronti di chi, arrivato ai vertici della Mafia, si è macchiato di crimini orrendi e ha sporcato di sangue la storia italiana

Feroce, disumano e spietato: storia della "belva" Totò Riina

Oggi Totò Riina è un signore anziano di 86 anni, indifeso e moribondo. Naturalmente, la notizia della sentenza della Corte di Cassazione che ne chiede la scarcerazione per motivi di salute è slegata dal suo curriculum di criminale. Partito dal basso come piccolo delinquente, a partire dagli anni Quaranta Totò "u curtu" ha compiuto una rapida ascesa che lo ha portato ai vertici di Cosa Nostra. Ma per diventare il leader inconstrastato della Mafia, ne ha dovuta fare di strada. Anzi, sarebbe il caso di dire che per la strada ha lasciato tanti cadaveri: almeno 100.

Nato a Corleone nel 1930 da una famiglia di contadini, fin da piccolo rubacchia dove e quello che capita, dal metallo alla polvere da sparo. Il primo salto di qualità lo compie appena adolescente quando diventa amico di Luciano Liggio, un piccolo criminale di provincia destinato a diventare un pezzo grosso della mafia: è proprio lui a farlo entrare nell'organizzazione. A questo periodo risale il primo omicidio di Riina, che finisce all'Ucciardone - il carcere di Palermo - per avere ucciso un coetaneo in una rissa: sarà solo il primo di una lunga serie .

Scarcerato qualche tempo dopo, Riina torna a lavorare per Cosa Nostra entrando nella "squadra della morte" che lascia dietro di sè un'impressionante striscia di sangue. A farne le spese i picciotti di Michele Navarra, il padrino di Corleone con cui Liggio ingaggia uno scontro faccia a faccia che termina all'inizio degli anni Sessanta con l'uccisione dello stesso Navarra e l'ascesa del tandem formato da Liggio e Riina, con il primo che diventa il nuovo leader delle cosche (e Riina che gli fa da vice). Coinvolto in una retata e recluso di nuovo all'Ucciardone, Riina aspetta fiducioso: lo Stato non ha i mezzi giuridici per incastrare lui e altri esponenti di spicco della Mafia come Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti: e infatti, nel 1969, vengono tutti assolti.

Riina entra in latitanza: vuole diventare il leader della cosca di Corleone. Farà di più, entrando nei libri di storia come "il capo dei capi". D'altronde, uccidere gli viene naturale: insieme a Provenzano e ad altri uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti nella celebre "strage del Lazio": è il dicembre 1969. Due anni dopo è l'esecutore materiale dell'omicidio del procuratore Scaglione e intanto prosegue la sua scalata alla piramide mafiosa: prende il posto di Liggio nella cosiddetta "Commissione", aumenta gli introiti dell'organizzazione progettando il sequestro di alcuni ricchissimi imprenditori e intanto - siamo nei primi anni Ottanta - fa eliminare i boss Giuseppe Panno e Salvatore Inzerillo.

Riina "l'animale" , come l'aveva soprannominato il suo amico e referente politico Vito Ciancimino, è feroce e spietato. Condannato in contumacia all'ergastolo durante il "maxiprocesso" (1986-1992) per colpa delle rivelazioni dei primo vero pentito di Mafia Tommaso Buscetta, ne fa uccidere 11 parenti, tra cui donne e bambini. Ma Riina entra ancora di più nell'immaginario collettivo durante la stagione delle stragi. È il 1992 e tra il 23 maggio e il 19 luglio condanna a morte i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli rimangono pochi mesi di libertà: è il 15 gennaio del 1993 quando gli uomini dei Ros lo arrestano dopo una lunga latitanza durata 24 anni. A tradirlo le rivelazioni di Baldassarre "Balduccio" Di Maggio, il suo storico autista.

Comincia così, a 63 anni, la sua vita di carcerato, imputato e condannato. In uno dei processi che lo vedono protagonista - e che porteranno ad infliggergli 14 ergastoli - un giudice gli chiede se ha mai sentito parlare di Cosa Costra. Riina fa spallucce.

Usa la stessa strategia degli anni Sessanta. Peccato che non paghi più. Rinchuso nel carcere di massima sicurezza dell'Asinara con il 41-bis (e poi a Parma), comincia ad accusare i primi problemi di salute. Fino al parere espresso dalla Suprema Corte, che chiede ufficialmente di allentare le strette maglie della giustizia che lo opprimono.

I giudici di piazza Cavour chiedono di avere pietà di lui. La stessa pietà che Totò Riina, detto "u curtu" (per i suoi 158 cm di altezza), "la belva" o anche "lo ziu", non ha mai avuto, neppure nei confronti di donne e bambini.

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