La giungla, il computer e il rito: ecco il diario di Silvia

La ragazza dice di non essere stata né incatenata né violentata: "Pregavo e guardavo dei video". Ecco come è iniziata la conversione

La giungla, il computer e il rito: ecco il diario di Silvia

Una voce pacata e uno sguardo disperato: appariva così Silvia Romano nel video consegnato ad aprile. La richiesta era chiara fin da subito: "È il 17 gennaio 2020. Mi appello a voi, vi imploro… Liberatemi, fatemi tornare a casa". I dubbi sul caso della giovane cooperante sono ancora molti, dalla lettura del Corano alle possibile violenze subite, passando per la conversione. Ma grazie al diario della prigionia emergono nuovi particolari sul periodo di sequestro della ragazza, che è stata liberata dopo quasi 2 anni di reclusione tra Kenya e Somalia. Un'esperienza drammatica l'ha vissuta per un mese nella giungla per arrivare in Somalia. Qualche giorno prima del rapimento due uomini l'hanno cercata al villaggio di Chakama, anche se inizialmente non ha dato troppa importanza al fatto. Ma successivamente sono arrivati in quattro con due moto per portarla via: "Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’era freddo e dormivamo all’aperto. Mi hanno dato i vestiti e anche alcune coperte".

Hanno dovuto attraversare un fiume, con il fango che le arrivava alla vita. La giovane era del tutto stremata al momento dell'arrivo presso la prima casa: "Mi hanno chiuso in una stanza, dormivo su un pagliericcio. Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male, non sono stata incatenata o picchiata. Non sono stata violentata". Però ha espresso il desiderio di avere un quaderno per tenere il tempo e per scrivere. Inoltre ha chiesto anche di poter leggere dei libri. Le hanno così portato un computer non collegato e un quaderno.

La conversione e i viaggi

Voleva pure pregare e perciò le hanno dato il Corano scritto in arabo e in italiano: "Ero sempre da sola e a un certo punto mi sono avvicinata a una realtà superiore. Pregavo sempre di più, passavo il tempo a studiare quei testi. Ho imparato anche un po’ di arabo". La conversione era praticamente avviata: in occasione della celebrazione della shahada, la cerimonia per aderire all'Islam, era presente anche il suo carceriere, che per lei "era il capo". Recitando la formula è avvenuta la conversione. Lei pregava e guardava video che le mostravano da Al Jazeera. Mentre era chiusa nella stanza, continuava a sentire un vociare da fuori e il richiamo del muezzin: "Questo mi ha fatto pensare che fossero caseggiati, erano villaggi con altre persone anche se io ho visto soltanto i sei uomini che mi tenevano prigioniera. Erano divisi in due gruppi da tre. Non ho mai visto donne". Il cambio di rifugio e ogni viaggio sono avvenuti a piedi, sui carretti o con la macchina.

Per due volte dice di essere stata molto male: "Avevo dolori forti e la febbre, hanno fatto venire il dottore e mi hanno curata. Mi hanno sempre dato da mangiare, se la sera eravamo in viaggio per i trasferimenti e faceva freddo mi davano le coperte". Con il passare del tempo Silvia ha imparato a convivere con i suoi carcerieri: anche se non li poteva identificare dal viso poiché entravano con il volto coperto, li riconosceva dalla voce. Ha girato tre video davanti a un cellulare: stesso testo, ma recitato in date diverse. "Volevo sapere la data, volevo sapere quanto tempo passava", dice la Romano.

La svolta

Improvvisamente è arrivata la svolta, quando le hanno annunciato l'imminente liberazione. Dopo qualche giorno è stata fatta salire su un carretto trainato da un trattore: "Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti. per dormire mi sono messa sotto il tavolo con le coperte". Poi è salita sulla macchina di chi doveva prenderla in consegna, in presenza di due uomini somali. Il tratto è stato di circa 30 chilometri: come riportato dal Corriere della Sera, prima è stata portata in un compound militare e infine è stata trasferita nell'ambasciata italiana a Mogadiscio. Ad attenderla c'era l'ambasciatore Alberto Vecchi.

Silvia ha indossato l'abito delle donne somale, una lunga tunica e ha avuto il volto coperto anche quando è entrata nella sede diplomatica. "No, sto bene così. Adesso mi chiamo Aisha, tornerò in Italia con questi vestiti.

Continuerò a tenere il velo. Ne parlerò poi con mamma", ha risposto a chi le ha chiesto se avesse bisogno di altri abiti. E nel frattempo ha continuato a sorridere e a ripetere: "Sto bene fisicamente e psicologicamente".

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