Una decina d'anni fa Cecilia Sala ha sbagliato sui marò detenuti in India, anche se ognuno è libero di esprimere le sue opinioni, giuste o meno che siano. Adesso siamo noi obbligati a non sbagliare in una vicenda così delicata. Le polemiche strumentali o ideologiche non servono a nulla, anzi possono risultare dannose. Quello che conta, ora, sono idee chiare senza tanti fronzoli: Cecilia è una giornalista italiana, «ostaggio» degli iraniani, che va riportata a casa, punto e basta.
Lo stesso marò Salvatore Latorre, che non ha dimenticato i post poco simpatici della giornalista, ribadisce che bisogna fare di tutto per la sua liberazione, incitandola a resistere con un «tieni botta, Cecilia». Non ha alcuna importanza se Sala è di sinistra o di destra, se vota per un partito o un altro. So di cosa parlo: nel 1987, quando sono stato catturato durante un reportage con i mujaheddin che combattevano l'Armata rossa, l'Unità titolò «Neofascista arrestato in Afghanistan» perché avevo militato dieci anni prima nel Fronte della gioventù. L'importante è che Cecilia fosse in Iran per realizzare un reportage come giornalista con un regolare visto, che gli iraniani potevano revocare rispedendola in Italia se i suoi podcast li avessero particolarmente stizziti. Purtroppo si tratta di una vicenda ben più complessa e pericolosa, una «rappresaglia» per l'arresto a Malpensa di un iraniano che gli americani accusano di aiutare i Pasdaran nel dribblare le sanzioni.
Non si può nemmeno dire che la giornalista italiana sia una sprovveduta o una kamikaze dell'informazione, un'improvvisatrice che non si rende conto dei rischi. Anzi, nonostante l'irruenza della giovane età, risulta che sia sempre stata molto attenta. A Kabul, dove l'ho conosciuta, durante la Caporetto afghana, non si è buttata in mezzo alla protesta delle donne disperse a fucilate dai talebani rischiando di finire male. Sul ponte di Irpin non si è tuffata verso i carri russi che avanzavano su Kiev, riuscendo comunque a fare, in relativa sicurezza, un buon lavoro.
Nel regno degli ayatollah forse avrebbe potuto mandare in onda i podcast una volta tornata a casa, ma le autorità erano informate su incontri, interviste e non avevano battuto ciglio. L'hanno fermata, non a caso, solo tre giorni dopo l'arresto dell'iraniano in Italia, quando stava per rientrare in patria. E se l'Iran è un Paese pericoloso, non solo per i giornalisti, rappresenta un motivo in più per cercare di raccontare cosa succede.
Ben più gravi delle polemiche sono invece i deliri pro Pal, che hanno già condannato Cecilia come «agente sionista» perché scrive sul Foglio e ha realizzato reportage in Israele come tutti i giornalisti che raccontano le guerre. Chi scrive queste cose finisce per fare il gioco dei carcerieri, che puntano spesso ad ottenere «confessioni» farlocche, estorte con pressioni fisiche o psicologiche utili a giustificare la detenzione sine die.
Lo stop alle polemiche dannose o ai deliri e il plauso alla ferma linea bipartisan può solo aiutare a sbrogliare la matassa. Non solo bisogna abbassare i toni, ma pure i riflettori, aiutando chi lavora in maniera necessariamente discreta per risolvere il caso. Per dibattiti e polemiche ci sarà sempre tempo, quando Cecilia tornerà a casa.
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