«Ancora una volta siamo davanti ad una prova storica. Dobbiamo dimostrare a noi stessi e al mondo di saper lottare, sopravvivere e difendere la Madrepatria. Ma, per riuscirci, dobbiamo essere pronti a sacrificarci perché - non scordatelo mai - la Madrepatria è un dono del Signore». Siamo nel mezzo d'una foresta della regione di Martakert, nel nord-est del Nagorno Karabakh. Nascosti tra il denso fogliame di faggi e betulle una cinquantina di combattenti armeni ascolta in silenzio le parole di padre Narek Petrosian e di padre Gor Gyorgian. Alcuni non hanno più di 18 anni e fissano immobili i due crocifissi dorati che i sacerdoti tengono protesi davanti ai loro occhi. Tutti insieme si fanno il segno della croce, poi recitano il Padre Nostro armeno. È la preghiera prima della battaglia. L'ultima benedizione per un'unità che questa notte tenterà la difficile riconquista di una fetta di territorio caduto in mani nemiche. Non tutti torneranno. Padre Narek e padre Gor sono i primi a saperlo. I primi a ricordarlo. «Vi chiediamo di osare, ma con giudizio e discernimento. La nostra missione è vincere, non morire». Poi tutti insieme esplodono in un solo grido «Ateluin!», «Vinceremo!». Stavolta non sarà facile. Durante la guerra degli anni '90 - quella che regalò 26 anni di effettiva indipendenza ad un'enclave cristiana ed armena inserita da Stalin dentro i confini dell'Azerbaigian - nessuno avrebbe pregato nascosto nel cuore di una foresta. Ma le ultime tre settimane di guerra hanno cancellato qualsiasi equilibrio strategico. I missili dei droni turchi hanno trasformato le difese di questa enclave cristiana in trappole mortali. E altrettanto vale per le linee di comunicazione.
Le impervie strade dell'Artsakh, l'antico nome di quest'enclave cristiana, sono diventate poligono di tiro per i micidiali missili a guida laser lanciati dagli aerei senza pilota di Ankara. Grazie a questa manifesta superiorità gli azeri avanzano sia da sud, dove hanno conquistato la cittadina di Hadrut, sia al nord, dove sono facilmente penetrati attraverso il villaggio di Tallish già inutilmente attaccato nel 2016 durante la cosiddetta «guerra dei quattro giorni».
Consapevoli della superiorità tattica e strategica conseguita grazie all'appoggio della Turchia di Erdogan gli azeri sembrano poco disposti a concedere una tregua. Come già successo lo scorso 10 ottobre anche il cessate il fuoco scattato alla mezzanotte di sabato è stato cancellato dai missili e dall'artiglieria di Baku. Il tutto mentre il presidente azero Ilham Aliyev dichiara di voler conquistare Sushi, la città simbolo dell'identità cristiana dell'Artsakh già teatro, nel marzo 1920, del massacro di oltre 20mila armeni. In questo contesto la riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu convocata per oggi pomeriggio appare come una semplice e inutile formalità. «Preghiamo non solo per i nostri soldati - ci dice padre Gor -, ma anche per la vostra povera Europa e per i suoi cristiani. Preghiamo perché troviate la forza di riconoscere il nostro Artsakh e vi decidiate finalmente a condannare l'aggressione turca».
A pochi metri da noi il maggiore Baregham Aghakhanyam, il comandante dell'unità appena benedetta dai sacerdoti armeni, attende di accompagnare al fronte i suoi uomini. Ma intanto ascolta e sorride. «Dall'Europa arriveranno come sempre solo vuote dichiarazioni, nulla di più. Ma a noi non interessa.
A noi bastano forza d'animo e motivazioni spirituali. Per questo i miei uomini pregano prima di andare in battaglia. Per questo della vostra solidarietà non sappiamo che farcene. Pregheremo e combatteremo. E alla fine vinceremo. Anche senza di voi».
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