Ora, com'è giusto, la crisi Ucraina attirerà l'attenzione dell'opinione pubblica, ma non va dimenticato un altro appuntamento che può determinare una svolta in Italia, i referendum sulla giustizia. Una costante del Belpaese è quella di assorbire e depotenziare le spinte del cambiamento, specie quando mettono in discussione equilibri di Potere consolidati. E da noi non c'è nulla di più radicato da almeno trent'anni, cioè dai tempi di Tangentopoli, di un sistema che vede nella magistratura il Potere dominante e condizionante, superiore sicuramente a quello della politica e non solo. Ovviamente la «casta» togata ha tutto l'interesse a disinnescare i referendum e, in un momento in cui il suo indice di fiducia è estremamente basso, ha un solo modo per raggiungere l'obiettivo: fare in modo che non raggiungano il quorum.
La Consulta, pur non volendo pensar male, gli ha dato una mano bocciando tutti i quesiti che avrebbero potuto catalizzare, nella loro semplicità, l'attenzione dell'opinione pubblica: da quello sulla droga a quello sull'eutanasia, alla responsabilità civile dei giudici. Per cui per non fallire l'occasione il fronte referendario deve lavorare puntando a creare due condizioni. Innanzitutto riuscire nell'intento di abbinare la data con il primo turno delle elezioni amministrative. La Camera ha approvato un ordine del giorno che chiede al governo un «election day» per unificare le due scadenze. Se fosse recepito dal governo e, quindi, se fosse superata la prassi per cui un referendum non si abbina mai a un'elezione, non si comprenderebbe per quale motivo non si dovrebbero accoppiare i referendum al primo turno (probabilmente a maggio), invece, che al secondo delle amministrative. Magari la Lamorgese si inventerà che la lettera della legge vieta una simile opzione, ma se ci fosse la volontà politica - e c'è, visto il voto della Camera - basterebbe approvare un decreto legge di deroga come fu fatto per il referendum costituzionale del 2020. Probabilmente a quel punto il ministro accamperà il fatto che quel referendum non prevedeva un quorum. Ma è altra questione di lana caprina usata per lo stesso scopo: «assorbire e depotenziare».
La seconda condizione è che la campagna referendaria sia impostata politicamente come un cambio epocale nella Storia del Paese: la vittoria dei «sì» dovrebbe servire a chiudere una fase e ad aprirne un'altra. Insomma, dovrebbe essere un «sì» ad una giustizia giusta, contro il mantenimento dello «status quo» caratterizzato da un sistema pieno di limiti e contraddizioni che violano i diritti dei cittadini e finiscono per ledere l'immagine degli stessi magistrati. Il referendum, nei fatti, sarebbe una spinta anche al Parlamento per varare una riforma efficace e non all'insegna del compromesso come quella presentata dal ministro Cartabia.
In questo modo si metterebbero sotto i riflettori anche quei partiti che a parole dicono di voler cambiare pagina, ma per i rapporti che li legano alle toghe più politicizzate o per interessi elettorali fanno un altro gioco: sarà un caso ma il Pd e Fratelli d'Italia hanno una posizione speculare, entrambi voteranno «no» ai
quesiti sulla Severino e sulla limitazione della carcerazione preventiva. Insomma, lo scontro dovrebbe avvenire tra «garantisti» e «giustizialisti», tra chi vuole le riforme e chi no. Mettendo alla berlina posizioni di comodo.
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